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Mobbing_c3

Faccio una piccola premessa per rispondere a più persone che mi hanno scritto. Io scrivo racconti ispirati alla quotidianità, ma ogni personaggio che descrivo non è reale, non esiste veramente, è solo un esempio di caratteristiche umane. Vale per me quello che si scrive di solito nel frontespizio dei libri: ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale perché i miei scritti sono frutto della mia sola fantasia. Quindi se si vi sembra di riconoscervi o di riconoscere qualcuno che conoscete è solo un caso! In realtà non sto parlando di nessuno che conosco, soprattutto il questo racconto.

Viviana pensò, appena lo vide, che, quella mattina, qualunque cosa avesse fatto, al capo non sarebbe andata bene.
Lo aveva visto arrivare con la camminata pestilenziale delle giornate di luna piena e dopo tanti mesi riconosceva a colpo d’occhio le giornate no.
Era già agitata e a disagio.
Chissà a quale supplizio l’avrebbe sottoposta in mattinata!
Per fortuna nel pomeriggio aveva appuntamenti fuori sede. Ma la mattina, sarebbe durata secoli! Rimase seduta con la schiena rigida, le mani improvvisamente ghiacciate e lo stomaco stretto.
Aveva accettato il posto in quell’ufficio per uscire da un’azienda che stava scaglionando ogni mese dipendenti da mettere in cassa integrazione o peggio.
Per paura di perdere tutto aveva accettato di cambiare. Le avevano anche assicurato che quello era un ambiente di lavoro sereno, dove tutti collaboravano e si interfacciavano in buona armonia.
Purtroppo, raramente si prendono sagge decisioni sulla spinta delle emozioni e della paura.
I malumori del capo erano andati man mano intensificandosi. Le imputava continuamente responsabilità assurde, la umiliava di fronte ai colleghi e la trattava come uno straccio vecchio da buttare.
Viviana era consapevole che doveva assolutamente mantenere il posto di lavoro a qualunque costo. Il marito era stato cassaintegrato da un pezzo ed era in un profondo stato depressivo, soprattutto perché continuava a ripetere che era stato vittima di prevaricazioni da parte dei suoi capi.
Aveva lavorato per un’azienda molto grossa con migliaia di impiegati che avevano molti rappresentanti sindacali ai quali rivolgersi. Era seguito, quindi. I colleghi, poi, lo sostenevano. Lo chiamavano dicendogli che mancava la sua presenza in azienda. Che il loro team era monco senza di lui.
Viviana era contenta che almeno avesse mantenuto la coesione di una vera squadra con i colleghi e potesse utilizzarla.
Lei, invece, adesso, lavorava in una realtà piccola. Pochi dipendenti, nessun sindacato, un capo dispotico.
I colleghi, poi, non ne parliamo!
La signora più anziana, Lucia, la più legata al capo, era una donna di cinquant’anni non molto intelligente, acida, rinsecchita e dura come un limone vecchio di vent’anni, che non sapeva neppure utilizzare le più semplici funzioni del PC – o non voleva farlo, dopo tutti i corsi che l’azienda le aveva fatto frequentare! -. Era lei, in realtà, la persona che comandava e, se qualcuno le stava sulle scatole, ricattava il capo con segreti aziendali inenarrabili, e lavorava alle spalle del malcapitato fino alla sua estromissione.
Gli altri impiegati, tutti imparentati a vario titolo tra loro, erano oberati di lavoro e affannati, ma pronti a scannarsi fino all’osso alla prima occasione. Pur di fare bella figura con il capo erano capaci di tutto. Strisciavano come vermi, leccavano il culo in modo lampantissimo e vergognoso, si attribuivano meriti che non avevano…
Fauna tipica da ufficio!
L’allegria, il sollievo e la voglia di fare che inizialmente avevano spinto Viviana s’erano raffreddati quasi immediatamente, dopo un paio di docce fredde iniziali.
Una ramanzina del capo davanti a tutti sul fatto che lei proprio non sapeva come si doveva scrivere un appuntamento in agenda e un rimprovero velato, continuamente evocato ogni giorno anche se mai espresso chiaramente, quando aveva buttato alcuni documenti, come le era stato detto di fare, ma che poi erano risultati necessari.
Da quel momento era stata tormentata da un pesante senso di colpa.
Viviana aveva schivato accuratamente ogni possibile contatto con i colleghi e galleggiato sottotraccia il più possibile per rimanere invisibile! Un paio di volte, inavvertitamente, era venuta a contatto con uno di loro ed era esplosa una bomba che l’aveva ferita.
Comunque, lei, a lamentarsi dal capo sicuramente non ci sarebbe mai andata. Non faceva parte della sua indole. Per carità! Voleva solamente portare a casa uno stipendio per mantenere lei e il marito in modo dignitoso.
Quando aveva iniziato a lavorare in quell’ufficio, con il suo baglio d’esperienza di back office e la velocità di gestione dati che aveva imparato con l’esperienza, trasportata da tutto il suo entusiasmo era stata catapultata addosso ad un lavoro che non aveva mai fatto, in un ambito che le era del tutto sconosciuto. Spersa e molto preoccupata aveva cercato informazioni, ma nessuno le aveva spiegato le sue mansioni, nessuno le aveva dato indicazioni. Tutti avevano continuato il loro lavoro e basta. Il capo non aveva mai tempo, era sempre troppo indaffarato per darle anche la più piccola indicazione.
Viviana s’era un po’ arrangiata, aveva chiesto qualche informazione al socio di minoranza, persona che s’irritava per un nonnulla e che sproloquiava ad ogni occasione. Da lui, con tutte le cautele del caso e cercando di interpretare i segnali, aveva più o meno carpito quale doveva essere il suo lavoro.
Cercando in internet, chiedendo a persone che conosceva, facendo rare domande qua e là per non disturbare gli impegnatissimi personaggi e istrioni dell’ufficio aveva instaurato una sua routine lavorativa e aveva cercato di seguire e di adeguarsi in qualche modo alla caotica, improvvisata e strutturalmente inesistente gestione aziendale. Ovviamente le critiche e i rimproveri piovevano una dietro all’altro, continuamente.
Il livello di stress era aumentato a dismisura, tanto che il suo fisico aveva iniziato a dare forti segnali di disagio. Il medico le aveva consigliato di trovarsi un altro lavoro perché quello le faceva male alla salute. Lei aveva provato, ma lavoro non ce n’era per nessuno. Il periodo era di crisi nera. Doveva resistere. Doveva e poteva.
Ultimamente, poi, le spese erano aumentate e più di una volta s’erano trovati, lei e suo marito, a fine mese a dover saltare qualche pasto. Va beh, meglio per la linea.
Sentì la voce del capo che alzava il tono.
Viviana aveva il cuore in gola perché lui stava già gridando al telefono per qualche motivo che non comprendeva, con il suo socio di minoranza.
No, non sarebbe stata una mattina facile. Ed infatti: «Viviana!»
«Sì, eccomi!»
«Dove sono le carte per l’avvocato?»
«Quali, mi scusi?»
«Come quali! Quelle per il mio appuntamento di questa mattina, no?»
«Ah, sì. Mi scusi. Ho preparato sulla scrivania vuota di là i fascicoli, così se vuole scegliamo il materiale…»
«Io non ho tempo! Avresti dovuto preparare tu! Mi avresti dovuto già tu, senza che io ti dicessi niente, scegliere i documenti per delineare una linea di difesa. È da mesi che che sapevi di questo appuntamento. Lo sia benissimo che gli avvocati non fanno niente! Avresti dovuto già prepararmi tutto! Anche le carte che ho guardato quel giorno con il Dott. Pasquali! Cercale adesso e mandamele via mail mentre vado all’appuntamento!»
Viviana tremava dentro incontrollabilmente, la paura le seccava la bcca e le vuotava la razionalità, ma chiese comunque: «Mi scusi, Dott. Caritas. Io non ero presente al colloquio e non so che documenti avete valutato. Se passa un momento nell’altro ufficio con
trolliamo la documentazione che ho raccolto…»
«Non ho tempo, ti ho detto. È l’unica cosa che devi seguire qui dentro, ma non ne sai mai niente! Ci teniamo in contatto telefonico e mi spedisci quello che ti dico io, capito?»
Uscì dall’ufficio e Viviana si sedette alla sua scrivania tra i sorrisini compiaciuti dei colleghi che si erano goduta fino in fondo la scenata del capo e l’aperto sorriso di scherno della signora Laura, la vecchia arpia padrona del campo, che adorava vedere gli altri star male.
Tutti sapevano dell’assoluta mancanza di rispetto del capo per Viviana. Infatti anche nelle rarissime occasioni in cui lei era a colloquio con il capo che la stava affidando qualche incarico, arrivavano e si mettevano a parlare con lui dei loro compiti, ignorandola come lei non esistesse.
Viviana temeva in modo particolare i momenti in cui doveva seguire le istruzioni che il capo le dava mentre viaggiava.
Lo stress la faceva sudare e poi gelare.
Al telefono lui era ancora peggio, la metteva sotto pressione in modo da farle perdere la lucidità, la insultava pesantemente senza che lei potesse reagire.
Molto spesso non riusciva proprio a trovare qualcosa che aveva sotto il naso, solo per la disperazione.
Comunque quella mattina, durante le quattro o cinque telefonate di fuoco, riuscì in qualche modo a radunare quattro o cinque documenti validi.
Quando il Dott. Caritas le disse di essere entrato nello studio dell’avvocato, Viviana tirò un sospiro di sollievo. Ma lui, quasi avesse capito, richiamò per farsi inviare altri documenti.
Finalmente la tortura finì.
Spossata Viviana si poggiò alla scrivania e pianse tutta la sua frustrazione.
Ma cosa vuoi che ne sappia io, pensò, dei documenti che tu hai visto due mesi fa con un’altra persona? E cosa vuoi che ne sappia io delle strategie difensive, mica sono un avvocato! E come vuoi che faccia a sapere che vuoi portare all’avvocato dei documenti se non me lo dici prima? Ah, vero, scusa! Nel mio curriculum, tra le caratteristiche principali, c’era scritto anche: veggente e tra gli hobby: grande amore per la lettura del pensiero!
Capì, comunque, che non valeva la pena starci male, mille persone subivano mobbing pesante al lavoro tutti i giorni e lei non poteva fare diversamente.
La preoccupazione di Viviana aumentò, però, rendendosi conto che, se avesse perso il lavoro avrebbe avuto problemi grossi. Sì, lei e il marito potevano mettere in vendita la casa dove abitavano e spostarsi in un mini o magari in affitto. Ma sarebbe stato comunque difficile vendere. E poi, con tutto i sacrifici che avevano fatto!
Care persone le avevano avvallato un prestito per poter continuare a pagare le rate e per tirare avanti, ma se perdeva il lavoro…
Non voleva nemmeno pensarci.
Cercò di riordinarsi, di fare buon viso a cattivo gioco e si rimise al lavoro.
Il giorno dopo sentì le nuvole addensate sopra la sua testa.
Il dott. Caritas aveva una riunione con varie persone verso le 10. Di solito arrivava in ufficio verso le nove.
C’era un’ora da far passare e non sarebbe stato facile.
«Viviana!» tuonò infatti la voce del boss dopo pochi minuti.
«Sì, arrivo!»
Caritas con voce acida e cattiva iniziò una sequela sui problemi che lei gli aveva provocato il giorno prima, che non era riuscito a fare quello che doveva perché lei non aveva preparato i documenti in tempo e che adesso era tutto perduto, non ci sarebbero stati più giorni disponibili per preparare un tubo!
Viviana si sentì in colpa come non mai, l’ansia non le permetteva di parlare. Le sembrava di avere una spada piantata in gola.
Impossibile ogni tentativo di difesa.
Appena si permetteva di dire: «Mi scusi, Dottor Caritas ma…»
Lui rispondeva: «Taci, che non capisco perché non fai quello che devi. Queste cose le sai fare! E allora perché non le fai?»
Inutile cercare di far capire a Caritas che non poteva leggergli nella testa per capire cosa dovesse fare.
Caritas preferiva addossare i propri fallimenti sulle spalle di qualcun altro. Preferiva dare la colpa agli altri per sentirsi vittima dell’incompetenza altrui e non responsabile di un fallimento. Quante volte lo aveva sentito mentre diceva peste e corna dei suoi collaboratori!
Viviana alla fine rimase zitta, accettò anche quest’ultima responsabilità in silenzio. Inghiottendo il boccone amaro con molta fatica.
Non poteva dire nulla.
Il lavoro le serviva.
L’atto finale si scatenò all’inizio del pomeriggio. Nello studio del boss erano blindati il capo e la sua super segretaria, signora Lucia.
Confabulavano fitti.
Viviana stava continuando uno dei lavori che pensava fossero di sua competenza, quando arrivò il: «Viviana!» sbraitato da Laura, la segreteria particolare che terminò nella domanda: «Dove sono i moduli che dobbiamo mandare a de Rossi?»
Viviana sentì ogni pezzo del suo corpo trasformarsi in cemento.
Quei moduli erano l’annosa storia che non era mai riuscita a risolvere. Quando era arrivata a lavorare lì, erano sulla sulla scrivania che aveva ereditato, tra altre carte abbandonante dal suo predecessore. Aveva chiesto cosa ne dovesse fare a Laura, al socio di minoranza e ad altri. Tutti avevano risposto di chiedere a qualcun altro. Alla fine Viviana aveva deciso di inviare una mail al capo chiedendo istruzioni.
Non aveva mai ricevuto nessuna risposta, come a centinaia di altre mail inviate in seguito. Un giorno, però, che il capo sembrava proprio di buona luna, glieli aveva presentati e gli aveva chiesto cosa doveva farne e, soprattutto, se fossero formulati nel modo corretto.
Il capo li aveva appena sfiorati con lo sguardo, li aveva presi con la punta di pollice e indice e, con l’espressione disgustata di chi deve spostare un topo morto prendendolo per la coda, li aveva lanciati da qualche parte, dicendole che non gl’importava nulla di quei moduli.
Viviana aveva atteso che uscisse dall’ufficio ed era andata a raccoglierli.
Li aveva tenuti in un contenitore e ogni tanto li vedeva. Sentiva che prima o poi quei moduli le avrebbero procurato dei guai.
Bene, sembrava che il momento fosse arrivato!
Raccolse il materiale ed entrò nell’ufficio affollato.
«Allora? Dai, fai vedere quei moduli al Dottor Caritas» Luisa tutta mielosa.
Viviana li porse al capo.
«Ma sono ancora com’erano. Oh, signore! Ma perché non li hai cambiati?»
Viviana, sotto lo sguardo di Lucia: «Non sapevo come dovevano essere modificati.»
«Ma come no? Tu le sai fare queste cose, no? Ti abbiamo assunto per quello!»
«Sì, io so preparare i moduli, ma devo sapere cosa scriverci. Non so a cosa servano questi. Sono quasi uguali, poi. Quindi non so se da due bisogna crearne uno solo o se sono stati fatti così uguali per errore…»
Il dottore iniziò a leggere brontolando sempre più forte sull’incapacità di Viviana di fare le cose.
Poi, con la penna in mano, iniziò a sottolineare con gesti plateali cose che non andavano.
Viviana era in preda al panico.
Luisa si divertiva e gli altri colleghi osservavano compiaciuti il temporale che si stava scatenando.
«Dai, cambia questa roba qua, che abbiamo fretta!» sbottò il capo mettendole in mano di malagrazia i fogli.
Viviana tornò alla sua postazione e pensò che finalmente aveva avuto una risposta razionale, finalmente una risposta costruttiva, tesa a risolvere una questione per sempre.
Finalmente si sarebbe tolta il peso dei moduli.
In un attimo li sistemò e li stampò.
Quasi sollevata, li consegnò al suo capo che li lesse:«Tu! Devi sempre fare la polemica! Sempre a strizzare brufoli, sei! Ma cosa scrivi qui? Perché vuoi inserire questo numero di legge? A che cavolo serve? Ma si può sapere dove hai la testa?»
Viviana sentì il sangue defluire ed arrivarle sotto le scarpe, sapeva che il capo la stava provocando. La provocazione era il suo passatempo preferito, assieme all’umiliazione delle persone e
alla degradazione alla quale sottoponeva non solo Viviana, ma anche altri sfortunati.
Si divertiva a far sentire alcune persone come emerite merde e l’esperienza di anni gli permetteva di farlo benissimo.
Viviana era sicura di aver copiato esattamente quello che aveva scritto il capo e aggiunto quello che lui le aveva detto a voce!
Sentiva la voce del suo capo che continuava ad insultarla davanti a tutti, ma non riusciva a seguire bene le parole. Era angosciata e affranta e non sapeva proprio come togliersi d’imbarazzo.
Almeno non le facesse sempre quelle scenate in pubblico!
Alla fine, Viviana tentò ancora una volta di non ascoltare. Di lasciar correre, di pensare al suo oroscopo che le aveva consigliato di evitare ogni lite, a suo marito e alla sua casa.
Ma il capo cominciò anche a strappare i fogli che lei aveva appena finito di stampare gridando e lanciando pezzi di carta in tutto l’ufficio.
Viviana sentì salire un’ira tremenda!
Per dei moduli? Essere trattata in quel modo, davanti a tutti, per due stupidi moduli?
Iniziò a gridare più forte del capo. A sparare tutto quello che aveva dentro.
Il dolore e l’umiliazione, la degradazione.
Quando riuscì a fermarsi era troppo tardi.
Il dottor Caritas con aria glaciale disse a Luisa: «Dalle la lettera.»
Luisa con sorriso sornione da gatto di Alice, le consegnò una busta. Lo sguardo angelicamente falso.
Viviana aprì la busta.
Lettera di licenziamento.
Si sentì una pallina nelle mani abili e manipolatrici del giocoliere.
Era fatta. Tutto perduto.
Non ebbe più la forza di dire nulla.
Andò nel suo ufficio. Raccolse le sue cose e se ne andò.
Devastata.
Doveva andare a casa e avvisare il marito, sperando non si aggravasse.
Guidava completamente assorta nel suo mondo terribile.
Al semaforo giallo, si fermò.
Qualcuno le bussò sul vetro.
Lei mise a fuoco occhi scuri sereni e ridenti. Un sorriso magnifico che risaltava sulla pelle color cuoio. Un ragazzo indiano le offriva di comprare i suoi fiori.
Lei lo guardò più attentamente: era veramente felice.
Povero, probabilmente privo di tutte le cose che lei possedeva, ma sereno e tranquillo a offrire fiori al semaforo.
In quel momento capì.
Capì che la sua casa era solo una cosa, che non era così importante come aveva creduto. Che potevano venderla e risolvere tutti i guai in una volta sola. Si trattava solo di resistere il tempo necessario.
Suo marito era un uomo meraviglioso, che la capiva fin nel profondo. Che la capiva anche meglio di quanto, a volte, potesse lei stessa.
Solo cose. Si ripeté. Mi devo staccare dalle cose e devo lasciarle andare.
Mi tengo stretta la vita, la serenità, la salute. La voglia di vivere, il rispetto di me stessa e la mia dignità di essere umano.
Guardò ancora il ragazzo indiano.
Fece cenno di no con la testa, non poteva sprecare neppure un euro.
Lui sorrise ancora, gentile e contento.
E lei ricambiò, pena di tutti i suoi problemi, sebbene sulla via della guarigione.
Gentile e contenta.

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