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Rose

Caterina camminava a fianco della madre che avanzava facendo risuonare i tacchi alti e signorili.
Era infelice e profondamente scocciata.
Anche quella domenica aveva dovuto alzarsi all’alba, stessa ora di quando andava a scuola.
Aveva dovuto farsi un lungo bagno, lavarsi bene i capelli e avvolgerli in un grande asciugamano che la faceva sembrare esotica e goffa, mentre si vestiva tenendolo in equilibrio sulla testa.
Poi aveva dovuto attendere con tutta la sua pazienza che la madre le asciugasse i capelli lunghissimi, che odiava. Ciocca a ciocca. Spazzola e phon, finché erano diventati diritti e ordinati come le lunghe cordicelle dorate che a Natale la gente appende un po’ ovunque.
S’era dovuta mettere il vestito di velluto marrone con il colletto bianco di pizzo che sua madre aveva comprato il giorno prima, i calzettoni lunghi bianchi e le scarpe di vernice nera con la sottile stringa che le segava il collo del piede. Si chiese ancora una volta dove mai sua madre riuscisse a trovarli, abiti del genere. Forse non li comprava in un negozio. Forse li faceva fare su misura per lei, da qualche vecchia sarta, amica sua.
Caterina aveva notato che la mamma, per quelle particolari visite domenicali, le faceva mettere abiti simili a quelli indossati da una bambina bionda, dai capelli lunghi, che compariva nelle foto di un album.
La mamma teneva quell’album nello scaffale in basso a destra della libreria, nella sua camera, accanto a tutte le foto di famiglia, scattate prima del digitale.
Aveva smesso di chiedere alla madre perché doveva, da quando era nata, mascherarsi una domenica sì e una domenica no, da bimba dell’album. Aveva anche smesso di chiederle chi fosse quella bionda ragazzina, alla quale si era accorta da tempo di assomigliare parecchio.
Sua madre adottava un’irritante mutismo assoluto, quando riteneva di non dover dare spiegazioni. Un irritante mutismo assoluto indistruttibile.
Per finire la vestizione del personaggio, le aveva fatto indossare il cappottino grigio e un morbido basco d’angora, sempre grigio, che pendeva soffice carezzandole l’orecchio destro. Le aveva consegnato la piccola borsetta in pelle blu che conteneva il fazzolettino ricamato con le sue iniziali e un minuscolo portafoglio a forma di tartaruga.
Caterina odiava quelle domeniche dalla bisnonna.
Odiava la storica casa piena di gente vecchissima e silenziosa; con gli occhi vuoti e quasi sempre rivolti a terra e il sentore di morte che aleggiava nelle stanze.
Per mancanza d’abitudine, l’infastidiva avere attorno personale qualificato ed addestrato ad accogliere il suo cappotto e il suo berretto o a ricevere con attenzione e grazia e un lieve cenno d’inchino, la sua borsettina praticamente vuota.
Il cuore le accelererò, come sempre, in vista dei tre gradini e del portoncino della villa; l’inquietava l’avvicinarsi del momento della performance, che doveva essere perfetta. Altrimenti sua madre avrebbe ripetuto per tutti i quindici giorni successivi una litania di istruzioni da brivido.
Il loro appartamento era poco distante dalla villa della bisnonna, avvolta da rosai rarissimi che s’arrampicavano fin oltre il primo piano, e la raggiunsero in un baleno, in quella mattinata fredda e umida di novembre.
La arrière grand-mère, bisognava pure che le si rivolgesse in francese!, l’avrebbe accolta come al solito, distesa nel letto a baldacchino, sostenuta da una pila di cuscini e avvolta in scialli di seta e di lana, alternati, perché solo in quel modo poteva scaldare le ossa, diceva, e con il respiro appena affaticato, come avesse corso in un giorno di sole sulla spiaggia fino a raggiungere il mare.
L’avrebbe guardata con i vigili e limpidi occhi verdi, facendole aumentare il disagio fin quasi a sudare. L’avrebbe studiata bene, come per imprimersela nella memoria e poi avrebbe sorriso con delicatezza per non rompere la rete di rughe che inaspettatamente le si diramava sul viso.
Il ripasso dei tempi della recitazione terminò lì.
Il maggiordomo, appena aperta la porta, iniziò a confabulare a bassissima voce con la mamma.
Caterina non sentiva nulla, ma capì che tutto sarebbe stato diverso da quel giorno.
Si chiuse i lembi del cappotto sul petto, perché assorbissero il brivido della novità e rimase educatamente in attesa, seduta in una delle decrepite sedioline dell’atrio, in legno intagliato; fragili, lustre, odorose di cera.
Per la prima volta ebbe il tempo di accorgersi delle sottili crepe che si rincorrevano sui muri dell’ingresso e delle leggere ragnatele, lassù in alto, nella semioscurità, tra le braccia del grande lampadario dalle mille e cinquecento gocce di vetro, soffiato appositamente nella vetreria di Murano del maestro Florian, per il bisnonno.
Chissà che tragedia se la bisnonna o la governante si fossero accorte di quei segnali di decadenza!
Iniziò l’andirivieni frettoloso del personale della casa che causava spostamenti d’aria dal retrogusto gelido che rendevano sempre più fredde le ginocchia scoperte di Caterina.
Cominciò ad essere investita dalle sventagliate gelate del portoncino d’ingresso che veniva chiuso alle spalle di ogni nuovo personaggio che entrava in scena: il medico di famiglia Dott. Pietrasanta, l’avvocato di famiglia Cav. Castelletti, l’amico più caro della bisnonna Conte Rusconi della Valle, un conoscente…
Caterina dimenticata nella sua fresca giovinezza, si annoiò e si gelò talmente che decise di muoversi per la prima volta in completa autonomia nella grande casa.
Non andò molto lontano però, perché l’interessante accadeva nel salottino alla fine del corridoio. La mamma e l’avvocato stavano discutendo a voce abbastanza alta da attirare la sua attenzione.
S’accostò silenziosamente alla porta e vide la sala più strana e accogliente del mondo! Divano lungo e comodo, poltrone di varie forme, chaise longue e pouf, tutti foderati di tessuto verde increspato, invitante e dal profumo leggero, ordinatamente disposti accanto a tavolini quadrati, rettangolari, rotondi, leggermente più alti o più bassi, dove poggiavano lampade dalle basi variopinte o seriosamente beige; di pietra, di vetro, di legno e perfino di plastica. Un rincorrersi di piccoli spazi raccolti dove sedersi e leggere o conversare o stendersi a riposare.
La mamma stava ribattendo stizzita, ma composta come sempre: «Mi stai facendo irritare Elvio! Lo sappiamo benissimo tutti e due che la vecchia era lucida e si rendeva conto che sua figlia era morta! Ma non ha mai cambiato il suo ultimo testamento!»
«Esatto! Non lo ha mai cambiato, nemmeno dopo le mie suppliche! Testarda come solo una vecchia ricca taccagna blasonata può essere!»
«E allora vedi? Se era cosciente che la figlia era morta, ma non ha mai voluto cambiare il lascito alla mia cara figliola Caterina Dalla Rovere vuol dire che lo voleva lasciare a mia figlia, no? Mia figlia è a tutti gli effetti Caterina Dalla Rovere!»
«Ma è tua figlia. Non la sua cara figliola Caterina Dalla Rovere. Come sappiamo entrambi. E sarò io a decidere. Io solo sono l’esecutore testamentario!» rispose acido l’avvocato.
«Lo so, ma che c’entra? Figliola può essere anche un vezzeggiativo!»
«Oh, no. Non di certo per la Contessa Madre!» ironizzò l’avvocato.
«Elvio, non costringermi a pregarti! Dopo la morte di mio marito, non ho valutato bene le spese. Sono al verde quasi totale. Ci serve quel lascito.»
«Lo so. Non hai mai voluto ascoltare i miei consigli. Adesso sono fatti tuoi!»
«No, sono anche fatti di Caterina! E io sceglierò il miglior avvocato per fregarti il più possibile!»
Caterina sentì la voce della madre screziarsi d’odio e di cattiveria.
Si spaventò.
Non le conosceva quel tono, né quella faccia distorta dalla rabbia e dalla preoccupazione. Rimase sconvolta sentendola continuare: «Lo so benissimo che la casa per cani alla quale l’hai costretta a lasciare tutto il suo patrimonio è tua, e la dirigi e gestisci tu! Io lo so. Non credi che mi sarebbe facile farti smascherare?»
Caterina si sentì morire! Sua madre una ricattatrice!
Il pensiero le corse immediatamente alla sua scuola e alle sue compagne di classe, alla scuola di danza che amava così tanto! Se le avesse perse o se qualcuno fosse venuto a sapere come si comportava sua madre?
Si rese conto che tutto il suo mondo, dopo la morte del padre, era stato creato in bilico sullo sfruttamento della sua somiglianza con la figlia della bisnonna, morta giovane, e ora sul ricatto dell’avvocato da parte della madre.
Sentì la vergogna bruciarle le guance.
Senza fare attenzione si girò per scappare lontano e il tacco della scarpa urtò lo stipite della porta.
Lei vide la sconosciuta e deformata faccia della mamma rivolgersi verso di lei.
Lo sguardo di sua madre raccolse tutto il disgusto che sentiva di provare nei suoi confronti.
L’avvocato, di spalle, indifferente a tutto, esclamò: «Voi donne! Che strazio!…»
La madre, ormai dimentica dell’avvocato e della discussione con lui, gridò: «No, Caterina. Aspetta! Ti spiegherò tutto! Torna qui…»
Ma Caterina, piangendo, aveva attraversato l’atrio di corsa e ora si precipitava verso il folto del bosco della tenuta, che conosceva fin da piccola palmo a palmo.
Si dirigeva a lunghe e agili falcate verso il suo rifugio segreto.
Si girò e si accertò che la madre, sui tacchi, non riuscisse a raggiungerla.
Si lanciò nella corsa con maggior impegno saltando tra i tronchi, ormai invisibile.
Corse a perdifiato per lasciarsi alle spalle quello schifo.

Photo: www.italian-frescos.com

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