L’umorismo è assai complicato da rendere letterariamente. Perché può scivolare presto nella noia della lamentela ad oltranza o nella graffiante antipatia della satira irriverente o, peggio ancora, nella crassa risata volgare.
Mantenere quindi un buon equilibrio umoristico non è facile e per chi desidera scrivere con il tocco leggero e gradevole dell’ironia consiglio la lettura dei testi di Donald E. Westlake, soprattutto quelli che hanno come personaggio principale il ladro Dortmunder che sono tre: ‘Come ti rapisco il pupo‘ pubblicato in Italia nel 1975; ‘Il vincitore‘; ‘Minaccia a vuoto‘ del 2001.
Il genere di Westlake è il giallo, ma nel 1965 durante la stesura di ‘Tiro al piccione‘, come ama raccontare lui stesso ebbe un’illuminazione: «Quando l’ho cominciato, all’improvviso, mi sono accorto che mai più avrei potuto affrontare il genere con la serietà che avevo avuto fino ad allora. Mi sono detto: questo deve essere divertente. Ho cominciato a metterci dentro dell’umorismo e mi sono reso conto che descrivendo personaggi (…) perennemente in pericolo, se le loro azioni e i loro comportamenti avessero fatto ridere, la minaccia sarebbe diventata più reale.»
Il pezzo che vi propongo è tratto da ‘Come ti rapisco il pupo‘ storia esilarante che racconta di Dormunter che, in combutta con altri delinquenti altamente improbabili come: Andy Kelp, di suo non un centone intero e con la fissazione di rubare auto ai medici e Stan March, ladro d’auto che vive ancora con la mamma, extra ordinaria tassista, dovrebbe rapire un bambino ricco e ottenere dai genitori il riscatto. Come d’obbligo il finale non lo svelo!
– Dortmunder, vestito di nero e con la sacca di tela piena di arnesi da scasso, camminava sui tetti. Era partito da quello del garage sull’angolo. Quando fu sul sesto edificio, si sporse a guardare per assicurarsi di essere sull’edificio giusto ed ebbe un attimo di capogiro, quando vide la strada lontana, sei piani più in basso, beccheggiare come una nave alla luce dei fanali. Le macchine, posteggiate compatte sui due lati, lasciavano una striscia nera libera nel mezzo. Sulla striscia passava un tassì, con la capote gialla che ri-fletteva la luce. Dietro il tassì arrivava un’autopattuglia: la piccola cupola azzurra, sul suo tetto, sembrava una caramella.
L’edificio era quello giusto. Laggiù era visibile l’insegna del pellicciaio, proprio dove sarebbe dovuta essere. Dortmunder, leggermente sconvolto dall’altezza, si tirò indietro, si voltò cautamente e attraversò il tetto fino all’altro lato, dove una scala di sicurezza scendeva in un pozzo di buio che dava un po’ meno capogiro. Qui le facciate degli edifici erano così vicine che Dortmunder ebbe la sensazione che sarebbe bastato allungare la mano per toccare quelle dell’altra parte della strada. Le finestre erano tutte spente.
Erano le tre di notte, e in giro non c’era anima viva.
Dortmunder scese lentamente la scala di sicurezza. La sacca di tela emetteva un tintinnio soffocato tutte le volte che sbatteva contro la ringhiera della scala, e Dortmunder stringeva i denti a ogni rumore. Alcune delle finestre davanti alle quali passava appartenevano a depositi e a imprese commerciali, ma alcune davano su appartamenti privati. Così era fatta Manhattan: famiglie e fabbriche vivevano fianco a fianco. Dortmunder non aveva nessuna voglia che qualcuno si svegliasse, lo scambiasse per un guardone e gli piantasse una pallottola in corpo.
Primo piano. Una porta metallica tutta scrostata, verniciata di nero, chiudeva la scala di sicurezza, che si fermava a quel livello. Una scala di ferro poteva essere calata fino a terra, ma Dortmunder non mirava al negozio sulla strada, bensì al magazzino del primo piano. Nell’oscurità quasi totale posò la sacca di tela, passò le dita sulla porta, da cima a fondo, e decise che doveva forarla. Un’operazione rumorosa per qualche secondo, ma non c’era altro da fare.
S’inginocchiò, aprì la cerniera lampo della sacca e, a tasto, scelse gli arnesi necessari. Lo scalpello. La piccola sbarra. Il grosso cacciavite con l’impugnatura di gomma.
«Psssst!»
Dortmunder s’immobilizzò. Si guardò attorno, ma non vide che il buio. –
Photo: tuttoggi.info