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Ferie_intelligenti_o_quasi

Quest’anno avevo preso una decisione irrevocabile, scolpita nella pietra come i comandamenti: niente più vacanze al mare!
Basta con quella fastidiosa granaglia che si insinua perfino nei recessi più impensabili del costume, basta con le protezioni solari che, spalmate con cura, ti trasformano in un delizioso arancino pronto per la frittura, basta con quei piccoli demoni urlanti che, armati di paletta e secchiello, ergono fortezze di sabbia proprio sulla tua faccia nel momento sacro del riposino post-prandiale.

“No!” tuonai con un’inflessione drammatica degna di un attore shakespeariano, mentre spazzolavo i miei preziosi denti con una risolutezza che avrebbe fatto invidia a un samurai in procinto di affrontare mille nemici.
“Quest’anno si cambia registro! Si va in montagna! Aria frizzante che ti pulisce i polmoni, un silenzio così profondo da poter sentire il battito d’ali di una farfalla a chilometri di distanza, e soprattutto, lunghe e contemplative passeggiate che rigenerano corpo e spirito.” Quest’anno,” conclusi con un sorriso autocompiaciuto, “sarà una vacanza intelligente, una scelta di alto intelletto!”

Spoiler alert: la mia brillante strategia vacanziera si rivelò ben presto un colossale… Naaaa! Nessuno spoiler!

Già il primo giorno, mentre mi godevo beatamente il panorama dalla pittoresca baita (che poi, a ben guardare, era più una baracca sbilenca con un vago sentore di muffa), ecco che si materializza l’inquietante figura dell’autoctono vicino.
Un gigante! Un colosso di almeno due metri e cinquanta, con una voce che sembrava provenire direttamente dalle viscere di una betoniera e un fisico da far impallidire un orso grizzly reduce da una settimana di digiuno. Con un’ospitalità che definirei… “indiscreta”, si offrì di accompagnarmi in “una tranquilla passeggiata esplorativa”.
Ah, l’ingenuità! Non potevo certo immaginare che la sua personale definizione di “tranquilla” includesse la scalata di una vetta così impervia e scoscesa che persino gli stambecchi locali la evitavano con motivazioni che, suppongo, fossero legate alla pura e semplice sopravvivenza.
Dopo due ore di quella che ormai percepivo come una marcia di avvicinamento al patibolo, le mie scorte d’acqua erano evaporate, la mia dignità era scivolata via come neve al sole, e temevo seriamente di aver lasciato parte del mio fegato in qualche anfratto roccioso.
Quando, ormai ridotto a uno straccio ansimante, osai chiedere quanto mancasse alla famigerata vetta, il mio cicerone montanaro rispose con un’allegria che a me suonò quasi sadica: “Oh, fino adesso abbiamo fatto solo una piacevole sgambata di riscaldamento! Adesso, caro e nuovo amico, comincia la vera arrampicata!”.
Vera arrampicata?! Io avevo già intravisto un tunnel di luce bianca, preludio di un passaggio in un altrove che non mi andava di visitare.
Riuscii a ritornare alla baita solo grazie alla generosità di un mulo e del suo padrone dal cuore d’oro.
Decisi che il giorno seguente sarebbe stato dedicato al sacro riposo e al recupero delle forze, poi crollai sul materasso e dormii come un blocco di marmo.

La mattina dopo, dolorante in ogni parte del corpo, piazzai la mia fiammante amaca tra due alberi robusti, presi il mio libro preferito (un thriller psicologico ironicamente intitolato Calma Apparente), mi sdraiai e… crack!
L’amaca cedette di schianto, scaraventandomi al suolo con la grazia di un sacco di patate.
E giuro, ma proprio giuro, di aver sentito un fruscio malizioso provenire dalla chioma degli alberi, come se le foglie stessero bisbigliando tra loro: “Ahahah! Scemo! Che credeva? Di potersi rilassare qui?”.

Umiliato dalla natura ostile e dalle mie scarse capacità di campeggiatore improvvisato, decisi di rifugiarmi nel confortante abbraccio della tecnologia.

Accesi il cellulare con la speranza di un contatto col mondo civilizzato, ma il display rimase desolatamente vuoto.

Nessun segnale.

Perfetto, proprio quello che ci voleva. Tentai allora la via del Wi-Fi della baita, sperando in un miracolo digitale.

Apparve una lista di reti disponibili, e una in particolare catturò la mia attenzione: “CIA_spy_cam_003”. Istintivamente, decisi che forse era meglio evitare di connettermi.

Non si sa mai.

La sera, fui invitato a una cena “tipica” dal mio forzuto vicino e da altri componenti della sua compagnia.

Fu un’esperienza… illuminante.

Scoprii con mio sommo stupore che la polenta, servita in blocchi monolitici, poteva tranquillamente essere utilizzata come arma contundente in caso di necessità (e il modo in cui il vicino la brandiva mentre raccontava le sue imprese di caccia non faceva che rafforzare questa ipotesi).

E la grappa locale… oh, la grappa locale!

Un distillato potentissimo che, ne ero certo, avrebbe potuto tranquillamente alimentare un jet Boeing 747 senza battere ciglio.

Il contadino-chef, un omone rubicondo con un sorriso sdentato, mi guardò con un’espressione orgogliosa mentre trangugiavo un bicchierino di quel carburante artigianale: “È roba che ti rimette al mondo, figliolo!”. Beh, a dire il vero, il mio stomaco entrò in una dimensione completamente nuova, una sorta di limbo alcolico-gastronomico da cui temevo non sarebbe mai più tornato.

Quando provai ad alzarmi per ringraziare e congedarmi, le mie gambe decisero che era il momento giusto per abbandonare la carriera motoria.
Feci una specie di inchino rovesciato, urtai il tavolo, travolsi una sedia e finii con la faccia nella tovaglia ricamata con mucche e campanacci.
“Ecco, adesso sei uno di noi,” mi dissero, tra le risate.
Pare che abbiano scritto il mio nome sul muro della baita con gesso e grappa. Una specie di battesimo di grappa.

Ma il meglio doveva ancora venire.

Il giorno dopo, durante una passeggiata “rilassante”, fui circondato da un branco di mucche.

Una, dall’aria teneramente sfacciata, decise di leccarmi l’orecchio con un entusiasmo che avrebbe fatto arrossire un barboncino.
Ma, proprio mentre cercavo di allontanarla con tatto, una sua collega — con lo sguardo della vendetta negli occhi — si mise a caricarmi e inseguirmi.
Avete mai provato a correre per salvarvi da una mucca?
Io sì. E no, non è dignitoso, né intelligente!

La mia corsa disperata su per il sentiero (il vicino gridava mentre rideva fino a soffocarsi: “Vai verso l’alto, che la mucca fa più fatica!” io ero solo stroncato, invece) fu documentata in diretta da un gruppo di ragazzini romani in ferie in paese, che mi elessero “Er camoscio der Cadore” e da quel momento mi salutarono sempre mimando le corna.

Il mattino dopo, pensavo di aver toccato il fondo e che le cose sarebbero andate meglio da quel momento in poi.

Mi alzai, andai in bagno e poi in cucina dove trovai un animale rannicchiato sulla mia giacca. “Oh, povero micio,” pensai, “ti sei perso? Ma come sei spelacchiato…”
Con delicatezza, presi la creatura in braccio — graffi, ringhi e zampate comprese — e mi avviai verso la baita del vicino. Bussai, orgoglioso:
“Penso di aver trovato il tuo gatto!”
Lui mi guardò. Guardò l’animale. Tornò a guardarmi.
“Amico… quella è una volpe.”
“Una volpe?!” inorridii.
La volpe, a quel punto, mi guardò con una tale indignazione che se avesse potuto parlare, avrebbe detto: “Scemo di un bipede, ma perché non sei al mare?”
Scappò via, lasciandomi in mano un ciuffo di peli e un’altra figuraccia da incorniciare.

Ma poi, tra una rovinosa scivolata in un’improvvisa pozza di fango color cioccolato e un inaspettato (e francamente un po’ invadente) attacco galline curiose scappate dal giardino della baita di fianco, accadde qualcosa di strano, di inaspettato, di… liberatorio.

Iniziai a divertirmi. Non un timido sorriso di circostanza, ma una fragorosa, incontenibile risata che mi scuoteva da capo a piedi.

Ridevo di me stesso, delle mie disavventure, del mio improbabile vicino autoctono e boscaiolo che intonava a squarciagola le canzoni di Vasco Rossi stonando beatamente sotto il sole o le stelle, della pittoresca signora del negozietto del paese che vendeva esclusivamente campanacci di ogni forma e dimensione e formaggi dai nomi impronunciabili che sembravano usciti direttamente da un libro di Tolkien.

E così, le mie tanto agognate vacanze “intelligenti”, che nella mia mente dovevano essere un’oasi di silenzio e introspezione, si trasformarono in un’esilarante avventura comica, un susseguirsi di imprevisti assurdi e risate contagiose.

Scoprii, con mio grande stupore, che la vera essenza di una vacanza non risiede nella perfetta pianificazione o nel relax forzato, ma piuttosto nel tornare a casa con le gambe doloranti, la pancia stranamente piena di polenta e grappa, e un bagaglio di storie così folli da far lacrimare gli occhi dal ridere.

Anche se, devo ammetterlo, l’anno prossimo un pensierino al mare… beh, forse ce lo farò. Ma state pur certi che prima di stendermi su un’amaca, ci avrò una seria conversazione.

Voglio mettere in chiaro alcune cose fondamentali sul concetto di “supporto” e “gravità”.

Non si sa mai.

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