Sono un uomo piuttosto avanti negli anni. La natura della mia professione mi ha portato, nel corso degli ultimi tre decenni, in contatto, e non soltanto nel solito contatto, con una categoria di uomini interessante all’apparenza e in qualche modo singolare, sui quali, per quanto ne so, finora non è mai stato scritto nulla: mi riferisco ai copisti legali ovvero agli scrivani. Nella mia vita professionale e privata ne ho conosciuti moltissimi e, se volessi, potrei raccontare varie storie che farebbero sorridere i benevoli e piangere i sentimentali. Ma per qualche brano sulla vita di Bartleby, il più strano che abbia mai visto o conosciuto, rinuncio alle biografie di tutti gli altri. Mentre di molti scrivani potrei narrare l’intera vita, non si può fare nulla del genere per Bartleby. Non esiste materiale – ne sono convinto – per comporre una biografia completa e soddisfacente di quest’uomo. È una perdita irreparabile per la letteratura.
Incipit di Bartleby lo scrivano
Herman Melville
Opera curiosa, Bartleby lo scrivano fu pubblicata per la prima volta nel 1853, anonimamente, sulla rivista Putnam’s </em>Magazine. Il lungo racconto presenta con sottile humour e garbata leggerezza temi pesanti e inquietanti come la predestinazione, l’incapacità di comunicare, l’alienazione ed è riconosciuto come uno dei brani più intensi della letteratura americana. Non ottenne nessun successo di pubblico alla pubblicazione, ma venne studiato per molto tempo nel 1900 e sembrò anticipare testi come Il Processo di Kafka.
Perché leggerla? Per la sua garbatezza e per l’opposizione educata e costante, profondamente ostinata, del protagonista.
Uno scrittore può imparare a gestire narrativamente la tragedia attraverso l’ironia.