Che giornata!
Pioggia ghiacciata, neve, nebbia che non lascia vedere le cime già innevate delle montagne.
Alle sette di mattina non riesco a vedere quasi nulla, al di la del parabrezza.
Ma le nebbie non dovevano infestare la bassa o i castelli dei fantasmi?
Mi fermo, apro lo sportello, scendo e provo a pulire il vetro.
Chissà, forse andrà meglio, poi.
Che sbadata, a lasciare lo sportello aperto, è uscito il tepore che ero riuscita ad accumulare!
Però ho l’impressione di vedere meglio.
Tutti gli anni di questa macchina non aiutano di certo.
Non è molto accessoriata e l’impianto d’aria condizionata non è un modello all’avanguardia.
Però va.
Mi sembra di vedere qualcosa davanti. Freno con cautela.
Il pedale affonda e come al solito cigola cinguettando ad intermittenza. Dovrei far verificare quel pigolio vivace al meccanico, è simpatico, ma non credo che un pedale del freno che si rispetti dovrebbe lamentarsi tanto.
Abbasso la radio, annullando quasi a zero la voce del cantante straniero che non conosco.
Pigio il freno ancora, ed eccolo il rumore: ‘Gni, gni, gni!’
Tolgo il piede e il pedale si rialza, ma di nuovo: ‘Gni, gni, gni!’
Oh, no! Peggio di prima. Ora si lamenta anche quando torna a posto!
Nell’auto di nuovo: ‘Gni, gni, gni!’
No, decisamente non è possibile.
Appena riesco a vedere una piazzola laterale, ci parcheggio.
Mi guardo attorno, e controllo per bene la parte davanti. Nulla di strano.
‘Gni, gni, gni!’ ancora!
Apro di nuovo lo sportello, scendo, apro la portiera posteriore e controllo tutt’in giro.
Dietro al sedile destro vedo un guizzo veloce.
E proprio lì, col il cuore che gli pompa atterrito nel petto, sta ritto un coraggioso, incosciente passero. Mi osserva quasi seccato che io l’abbia scoperto.
«Mi spiace piccolino,» gli dico a bassa voce «devi uscire di qui. Lo so fa freddo e gronda acqua da ogni ramo, ma devi uscire. Non staresti bene qui, nel mondo degli uomini. Per te è più facile sopravvivere nella tua natura che nella mia casa abbandonata a se stessa tutto il giorno!»
Mi fa tenerezza vedere come mi osserva e come il pigolìo diventi più forte, adesso.
Va beh. Giro attorno alla macchina, apro l’atra portiera. Ritorno alla postazione di partenza.
Prendo il giornale dal sedile posteriore e lo avvicino al passero stralunato.
Non mi pare deciso ad affrontare il duro inverno, tutto solo, lì fuori. Ma che altro posso fare?
Se umanizzo questo animale, lo rendo mio schiavo.
Gli animali dovrebbero essere, invece, sempre liberi, credo. Liberi di mantenere la dignità di creature diverse dagli umani, costi quel che costi. Soprattutto i passeri.
Con grazia e prudenza, do due piccoli colpetti di giornale alla sua coda.
Non voglio toccarlo con le mani, gli metterei addosso il mio odore di uomo e chissà poi, magari potrebbe succedere anche a lui di essere rifiutato da quelli del suo stormo.
Rifiutato come i cerbiatti, accarezzati dai bambini, che le madri non riconoscono più. Così ci raccontavano i guardaboschi, durante la festa degli alberi, alle elementari.
Mi sa che mi sto facendo troppe pippe mentali.
Mi devo decidere in qualche modo.
Mentre cerco di avvicinarmi ancora un po’, lui trova tutto il coraggio che gli serve. Mi guarda con quell’occhio tondo, aperto e lucido e via. Il tempo di uscire dall’auto e non lo vedo più. So che è qua intorno, sento il suo sguardo. Allora saluto il vuoto nella nebbia. So che lui mi vede.
So che non capisce. Non importa.
Non sono nemmeno arrabbiata, mentre pulisco il tappetino dagli escrementi.
Non so, mi passa come un brivido di buonumore lungo la schiena!
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