Blog

Iltempodellemanivuote

L’anziana donna (quasi 94 anni) sedeva sullo scalino della casa come un sasso antico, levigato dal vento e dagli anni.
La pelle le cadeva dalle ossa come una veste troppo grande, e le mani, arrese all’artrosi, si appoggiavano al grembo come due animali stanchi.
Il mondo continuava a muoversi attorno a lei, rumoroso e frettoloso, mentre lei restava lì, un frammento di tempo dimenticato, in silenzio.
Ogni tanto qualcuno le domandava: “Come stai, nonna?”. E lei rispondeva sempre: “Eh, si tira avanti”.
Ma nessuno ascoltava davvero. Del resto, cosa mai può dire un’anziana se non che le fa male tutto?
Era sola. O meglio: era circondata da presenze che non facevano rumore. I figli lontani, le foto ingiallite, la voce della radio che parlava da sola in cucina.
La vita le era rimasta attaccata addosso come un vestito fuori stagione: troppo caldo d’estate, troppo leggero d’inverno. A volte, la notte, sussurrava tra sé: “Basta, Signore, portami via”.
Ma il mattino dopo si alzava lo stesso, preparava il caffè, apriva le finestre.

Le sue giornate erano fatte di piccoli gesti, ripetuti come un rosario: il bicchiere d’acqua, la finestra socchiusa, il vaso del basilico, il pane secco da dare agli uccelli. Ogni gesto sembrava inutile, eppure lei li faceva con la stessa cura di chi ancora crede in qualcosa. Cosa? Forse solo nell’ordine, nella possibilità che un giorno, da quell’abitudine, nascesse un miracolo.
Aveva visto morire molti. Il marito, con cui aveva litigato tutta la vita e che ora le mancava come l’aria d’inverno. Le amiche, svanite una a una come briciole lasciate al vento. Alcuni giorni sentiva la morte vicina, come una coperta pronta a scenderle sulle spalle.
Altri giorni, invece, la vita le mordeva i talloni e le diceva: “Forza, muoviti!”.
C’erano momenti in cui davvero pensava di non farcela. Quando cadeva in casa, quando il corpo non rispondeva, quando il mondo sembrava fatto apposta per dimenticarla. In quei momenti parlava con Dio, ma anche con le cipolle, con il cucchiaio di legno, con il tempo. Diceva: “Non ha senso. Basta”. Poi, il giorno dopo, usciva con la borsa della spesa e ci metteva un’arancia. Solo una.
Ma era qualcosa da fare.
Un giorno un bambino le ha chiesto: “Sei la nonna di tutti?”
Lei ha riso, e da allora ci pensava spesso. Forse era davvero così. Forse era rimasta viva solo per sorridere a chi non aveva ancora imparato a temere il tempo. E il sorriso era diventato la sua forma più alta di resistenza.
Non era coraggio, non era fede, non era speranza. Era solo una sorta di testardaggine del cuore. Una forza primitiva che le diceva: “Ancora un po’. Solo un altro giorno.”
E lei obbediva.

Aveva imparato che il dolore si può anche poggiare da una parte, come una borsa troppo pesante. Che si può ridere con la gola secca, e piangere senza lacrime.
Una volta, guardando il cielo, pensò: “Non so se voglio vivere o morire. So solo che oggi il cielo è bello.”
Era tutto lì, forse. Non scegliere tra il finire o il restare, ma accorgersi che il cielo, ogni tanto, è ancora bello.
Poi, un pomeriggio d’inverno, scivolò nel cortile mentre cercava di scuotere la tovaglia.
Rimase lì per qualche minuto, col sedere a terra e la neve nelle mani.
Rise.
Rise davvero, con le spalle che sobbalzavano. “Ecco qua, è finita”, disse tra sé.
Ma poi vide un gatto che la osservava, incuriosito. “Che guardi, bestiolina?”. Il gatto non rispose. Allora lei si tirò su con fatica, tornò in casa, si fece un tè.
E da quel giorno smise di chiedere alla morte di venire.
Non perché avesse fatto pace col dolore, ma perché aveva scoperto che a volte basta un gatto, una tovaglia, un po’ di neve per sentirsi ancora parte del mondo.
Ora, quando qualcuno le chiede come sta, lei sorride e dice: “Oggi mi tengo stretta alla giornata. Domani si vedrà”.

E intanto, vive.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *