Era settembre (il suo mese preferito) 2023 quando Alarica sentì per la prima volta quel dolore sordo all’anca. All’inguine, per la precisione. Pensò subito a un’ernia inguinale, com’era capitato alla sua testimone di nozze qualche anno prima.
Fu la prima delle sue diagnosi sbagliate.
Diagnosi del quotidiano sbagliate.
La fitta inizialmente era lieve, quasi un sussurro del corpo, ma con il passare dei giorni si trasformò in un grido insistente, capace di incrinare le sue giornate e annebbiare le sue notti.
Alarica non era nuova alle difficoltà della vita, ma questo dolore la colse impreparata: era un ospite inatteso e persistente, che sembrava sfidarla a trovare una soluzione.
Dato che lei non riusciva a trovarne nessuna, decise di andare dalla sua dottoressa di base.
Alla segreteria dello studio medico le dissero che i tempi di attesa erano lunghi: la dottoressa aveva appena preso in carico altri 2000 pazienti.
“Va bene,” rispose Alarica: “Mi dia un appuntamento quando possibile.”
“Il 20 di ottobre.”
Che altro avrebbe potuto fare? Nulla.
Con la determinazione che l’aveva sempre contraddistinta, Alarica iniziò il suo viaggio per liberarsi da quella sofferenza.
Quando finalmente la dottoressa la visitò, cancellò subito la sua teoria dell’ernia con uno svolazzo della mano e la indirizzò a un fisiatra.
Alarica chiamò il call center della sanità locale.
“Al momento non abbiamo disponibilità per un appuntamento urgente. Se desidera, possiamo inserirla in lista d’attesa.”
“M’inserisca pure.” Che altro avrebbe potuto fare? Nulla.
A novembre, con il dolore che cresceva sempre di più, decise di affidarsi a una serie di infiltrazioni di ozono, convinta che quel trattamento potesse restituirle un po’ di sollievo.
Cinque sedute, ognuna accompagnata da una speranza sempre più fragile. Cinque aghi che si inserivano nel muscolo paravertebrale per rilasciare ozono.
Ma alla fine il dolore restò lì, inquilino inamovibile.
Ovviamente, a questo punto, il suo umore – da sempre leggermente malinconico – crollò del tutto. Iniziò a isolarsi.
“Perché incontrare persone che non possono capire?” si chiedeva.
“Perché parlare di qualcosa che loro non sentono, e che riducono a un frettoloso: Dai, dai su! Passerà, no?”
Passerà. Sì, un giorno o l’altro. In un mondo o in un altro.
Alarica sentiva di trovarsi di fronte all’Incomprensibile.
A metà novembre, il call center finalmente la richiamò: “Ha una visita con la fisiatra per il 30 di novembre.”
“Va bene, accetto.” Che altro avrebbe potuto fare? Nulla.
La visita fu fallimentare. La fisiatra le prescrisse oppiacei e una serie di risonanze magnetiche da effettuare.
“Le risonanze?” pensò Alarica. “Ovvio, avrei potuto pensarci da sola.”
Scannerizzò il referto della fisiatra e lo inviò via mail alla dottoressa di base, che le girò le richieste per gli esami nel giro di tre giorni.
Chiamò di nuovo il call center, ma venne inserita nella solita lista d’attesa.
Stanca di aspettare, decise di rivolgersi a pagamento a un centro diagnostico vicino casa.
L’appuntamento venne fissato per il giorno successivo e due giorni più tardi ritirò il referto e il dischetto con le immagini. Sempre più frustrata, iniziò un nuovo pellegrinaggio.
La seconda visita con la fisiatra portò a una diagnosi: artrosi all’anca. Di nuovo oppiacei. Di nuovo tanti bla, bla, bla. Nessuna soluzione.
Alla ricerca disperata di risposte, Alarica consultò altri specialisti.
Due fisiatri valutarono il suo caso, ma non riuscirono a fornire una soluzione definitiva.
A dicembre si recò a Padova, per consultare un ortopedico di fama.
L’incontro fu destabilizzante.
Il medico sembrava più interessato ai referti che alle sue parole. “La schiena è il vero problema, non l’anca,” sentenziò con un tono che sminuiva la sua sofferenza.
Propose un intervento alla colonna vertebrale, ma Alarica percepì quella diagnosi come un vicolo cieco, una deviazione dalla verità.
Era sola. Questa era la verità. Facile prescrivere oppiacei, farmaci che creano dipendenza, o proporre interventi generici per riempire il vuoto.
Si perse nella sua furia silente, nel rancore, nella solitudine che le toglieva il fiato.
Il dolore, si rese conto, era qualcosa di intrinsecamente privato, difficilmente descrivibile.
Come scritto da Scarry in The Body in Pain: “Il dolore sfugge alla comunicazione.”
Col tempo, il dolore di Alarica diventò visibile. Zoppicava, arrancava. Eppure, le persone intorno a lei reagivano solo con consigli superficiali:
“Perché non provi l’agopuntura?”
“Perché non vai da Pinco Palla? È bravissimo!”
“Perché non ho più un euro,” pensava Alarica.
A marzo 2024, dopo settimane di antinfiammatori che devastavano il suo intestino, Alarica decise di consultare un altro ortopedico, questa volta all’ospedale di Abano. A pagamento.
L’ortopedico le offrì due opzioni:
- Un intervento di protesi all’anca.
- Una terapia intensa: iniezioni e cinquanta sedute in camera iperbarica.
Scioccata dalla prospettiva dell’intervento, Alarica scelse la terapia.
Ogni seduta era un sacrificio: due ore in una camera piccola, stretta, con altre dieci persone. Una volta chiusa la porta stagna, non poteva più uscire fino alla fine.
Le sembrava una prigione più che una cura.
Il dolore continuava. Ogni farmaco era una tregua temporanea, mai una soluzione.
Un anno e due mesi dopo il primo sintomo, Alarica si trovò davanti a una decisione inevitabile: accettare l’intervento.
Nella stanza d’ospedale, rifletté sul cammino percorso. Quel viaggio non era stato solo una ricerca di guarigione fisica, ma anche un percorso di scoperta interiore.
Capì che il dolore, pur spietato, era stato un maestro.
Le aveva insegnato i limiti della forza, l’importanza dell’empatia, e la fragilità della vita.
Il giorno dell’intervento, Alarica si svegliò con una strana pace.
Non era più solo una donna in fuga dal dolore. Era una donna che aveva imparato a comprenderlo, a integrarlo nel proprio vissuto.
Entrò in sala operatoria con il cuore colmo di speranza: non solo per la fine del dolore fisico, ma per il futuro che, ora, riusciva a desiderare.