La vita è davvero creativa. In modi infinitamente arzigogolati o diretti, come il volteggiare lieve di una foglia che ti atterra sul capo o come un pugno sul naso.
Comunque, non è che voglio scriverti un diario sulle traversie della mia vita (sai che noia!!! E poi tu le conosci già tutte!), però vorrei raccontarti delle ultime cose che mi stanno capitando.
Devo tenerti aggiornata. È un pezzo che non ti scrivo una mail.
Uno degli ultimi giorni di settembre 2023 mi sono svegliata con un fortissimo dolore all’inguine, davvero forte. Cioè, forte per me. E improvvisamente la mia gamba sinistra mi sembrava di legno. Non avevo più la mia vecchia gamba, quella che conoscevo, ma una gamba diversa. Faticosa e dolorosa.
Da lì la creatività della vita ha iniziato a srotolarsi come una cangiante balla di seta. La Doc mi dice che no, non è un’ernia inguinale (come pensavo io), ma probabilmente un problema di nervi infiammati per colpa dei problemi alla schiena (e chi non ha problemi alla schiena?, li hai anche tu!). Mi dice di fare una visita ortopedica. Poi no, meglio una fisiatrica.
Vado dalla fisiatra che mi fa fare un ciclo di terapie. I dolori non diminuiscono mai, nonostante i farmaci, gli esercizi e gli aggeggi strani.
Pazienza.
Bisogna sopportare e andare avanti lo stesso con la propria vita.
Però il male è male e diventa a volte invalidante. A volte mi fa piangere. Davvero. Come quando eravamo bambine, come quel pianto lì, per i dolori della vita, ricordi? Quello con le lacrime e tutto, quando cadevamo e ci sbucciavamo le ginocchia.
Inizio anche a essere stanca del dolore, però. Ma, ligia al dovere, procedo in questo giochino innovativo della vita, e cerco di rinnegare il dolore.
Il lavoro, come ti ho detto, è finito. Finito a luglio e me ne devo fare una ragione. Ho terminato (e per fortuna) anche il contratto a tempo determinato da settembre a gennaio.
Concluso anche il corso per disoccupati, con un dolore alla gamba a volte allucinante, mentre seguo le lezioni.
In compagnia del dolore, insomma.
Provo anche una terapia all’ozono. Siringate (non piacevoli) nei muscoli paravertebrali. Che fa anche un po’ paura a pensarci.
Comunque la paura si affronta e si fa quel che si deve per procedere nel cammino. Fine del ciclo di iniezioni paravertebrali. Due giorni senza dolore e poi si ricomincia.
Il dolore che inizia all’anca e procede fino al piede, dico.
Ok, anche quella dell’ozonoterapia non era la Soluzione. Peccato.
Faccio una nuova lastra. Chiedo una nuova visita fisiatrica. La lastra non basta, si necessita di risonanza magnetica. Una cosa faticosissima già trovare un posto per fare una lastra. Non ti dico trovare un posto per una risonanza. Siamo a gennaio. Cinque mesi con il male. Comunque a marzo, il 9 marzo, riesco a fare la risonanza all’anca. Il referto ovviamente è in medicalese, lingua sconosciuta ai poveri mortali che possono:
1. Affidarsi al medico di base, detto il passacarte.
2. Entrare in chatGPT (intelligenza artificiale) e chiedere spiegazioni.
Il fatto è che l’AI è programmata per darti le cattive notizie in modo cauto, per non essere insensibile, e quindi non specifica chiaramente cos’hai.
Mi confronto alcuni giorni con la frase criptica della risonanza: “In corrispondenza della porzione polare antero-superiore della testa femorale si apprezza focolaio di sofferenza ischemica subcondrale di morfologia semilunare delle dimensioni di circa 2 cm inglobato in fenomeni di edema spongioso di natura algodistrofica che si estendono anche a parte del collo.”
Ecco, ok. Almeno oggi, 11 marzo, abbiamo questa serie di parole, che ricordano una poesia ermetica e descrivono, in medicalese, cosa e perché mi fa male.
In realtà non capisco, ma accetto.
Che altro posso fare?
Peccato che io non abbia studiato il medicalese, ma abbia studiato le poesie ermetiche.
Quindi devo per forza rompere le scatole alla mia Doc, che ha appena ricevuto 200 nuovi pazienti da seguire, quindi vedi tu. Tanto capita a tutti, lo so. Lei: zero su zero.
Mi fa una ricetta per l’ortopedico, stavolta, e mi manda a fare la visita specialistica.
E la vita è davvero creativa perché a questo punto mi fa imbattere, il giorno 30 aprile 2024, nell’ortopedico più improbabile che esista nel nostro emisfero. Il quale mi tiene una lezione sulle problematiche varie della mia schiena e mi dice che, se voglio, possiamo prendere un altro appuntamento durante il quale m’illustrerà tutte le varie fasi della mia operazione alla schiena.
Onestamente, la creatività della vita a questo punto m’è sembrata un pelo eccessiva, e quindi ho provato a sondare: «Scusi, Professore (meglio sempre abbondare con le cariche), però a me fa male l’anca. Ho fortissimi dolori all’anca da settembre…»
E così arriviamo a quello che ha scritto nel referto per la mia Doc questo curioso tipo di medico. Testuale: “Eseguite NMR di bacino e ginocchio; la Pz. (che sarei io, la paziente, Pz.) non intende al momento, visto il quadro clinico modesto, approfondire il problema della colonna e intende concentrarsi sul problema dell’anca dolorosa. Prescrivo: si discute di un eventuale approccio chirurgico; la pz. (sempre io) mi contatterà nel caso in cui intendesse approfondire per ulteriori chiarimenti e dettagli dell’operazione alla schiena.”
Beh, onestamente, che senso ha? Se mi fa male l’anca, un dolore forte come detto prima, perché dovrei prendere in considerazione di farmi operare alla schiena, se le due cose non sono legate? Cioè, se il dolore alla gamba non è direttamente collegato alla schiena?
Se avesse scritto: “La sua schiena malridotta le procura dolori all’anca…” Beh, allora sarebbe stata cosa differente, o no?
Quindi torno dalla mia Doc che legge questo testo in medicalese e mi guarda come se io volessi complicarle la vita, e distruggere il suo precario equilibrio con i 200 nuovi pazienti.
Ovviamente deve convenire che quel referto scritto ed espresso in quel modo non serve a niente. Quindi?
Nuova ricetta per nuovo ortopedico con il consiglio di andare a fissare la visita in un altro ospedale.
Ma questa volta oltre al fatto di cambiare la struttura decido di avvalermi di una prestazione a pagamento.
E quindi ci siamo. Finalmente arriva il 30 aprile. Appuntamento con ortopedico a pagamento in altra struttura.
Presento le stesse identiche carte che avevo presentato alla fisiatra e al precedente ortopedico.
Questo è giovane, iperattivo e non parla medicalese.
«Signora, lei ha la necrosi della testa del femore. Cioè, il suo osso sta morendo. Non ha letto qui? Ischemia?»
Già, avrei dovuto leggerla, anzi sono certa di averla letta, il problema è che non avevo voglia di capire cosa volesse dire.
Comunque questo modernissimo e giovanissimo medico mi offre due chiare possibilità:
1. Operazione con asportazione dell’osso malato e un pezzo d’anca con sostituzioni in titanio.
2. Camera iperbarica per ossigenoterapia: 50 sedute, più magnetoterapia, più iniezioni varie.
Già, ciclo di iniezioni varie, e tu sai quanto io le odi. Ma va bene, va bene tutto, pur di riuscire a far passare il dolore!
La mia Doc a quel punto mi offre ancora una volta e con più insistenza del solito gli oppiacei, che ancora una volta rifiuto con stoica ripulsa.
Non rimane molto altro.
Mi attivo e tu lo sai per esperienza come funziona qui. Alla fine sono sempre in una di quelle situazioni incerte, in equilibrio tra suspense e stress.
Riesco a far partire il ciclo di iperbariche, dopo visite (precedute da sfinenti telefonate per appuntamenti) di cento tipi, riesco a trovare qualcuno che mi fa le iniezioni, riesco a trovare una di queste moderne APP che mi permette di acquistare a rate l’apparecchio di magnetoterapia.
Son pronta.
Chiamo quelli del corso regionale terminato che dovrebbero darmi la data d’inizio del tirocinio in azienda. Ancora non sanno nulla. Mancano delle carte che la Regione dovrebbe fornire, ma non si sa quando.
Come sempre, Alessia!
Passiamo il tempo a cercare una carta, a ottenere una carta, a compilare una carta, ad attendere l’arrivo di una carta, come tu ricordi benissimo.
Comunque, è un altro aspetto della mia vita in stand-by.
Quindi mi butto sulla cura.
Iperbarica: due ore al giorno tutti i giorni (feriali).
In fondo non è grave penso.
Non sono io che sto morendo.
È solo la testa del mio femore che ha deciso di morire e se io non fossi così votata al martirio avrebbero già tutto risolto: mi avrebbero segato il pezzo di femore malato, tolto l’anca e sostituito tutto con parti in titanio.
Che durano… che so (ha detto il medico giovane e fattivo) un dieci/quindici anni, poi è necessario un altro intervento di sostituzione.
Ecco perché io adoro il qui e ora. Rendiamoci conto, tra dieci anni sarò vecchia davvero. Vecchia irrimediabilmente. Vecchia e basta. E dovrò rifare…
Non ci voglio pensare, Alessia. Lo sai come sono, no? Voglio rimanere nel qui e ora.
E quindi dai che vado in questa camera iperbarica.
Infermieri gentili ci spiegano (sì, perché è una terapia collettiva, di gruppo, non la fai da solo, ma con un gruppo di fidi compagni che sono e resteranno sconosciuti) che dobbiamo indossare sempre mascherine FFP2 (esatto, quelle lì, quelle del Covid). Che dobbiamo indossare solo abiti di cotone. Non sintetici perché potrebbero creare una scintilla e noi salteremo per aria in iperbarica.
Spero sia uno scherzo, ma mi rendo conto che sono seri, anzi serissimi.
Comunque sopra dobbiamo indossare un camice verde che ci ricopre quasi in toto e le soprascarpe, quelle da terapia intensiva, quelle azzurre, ricordi, no?
Siamo in otto oggi. Cinque signore (con una o più stampelle – io zoppicante) e tre signori (più o meno zoppicanti). Verde vestiti, mascherati, disinfettati nelle mani col solito gel di covidiana memoria entriamo in questo mini sottomarino che ci porterà a 15 metri (di pressione) sotto il mare, ci farà respirare ossigeno attraverso una maschera per un’ora circa e poi ci farà risalire alla solita pressione terrestre.
Terribile.
Terribile perché, mi chiedi?
1. Ognuno è lì per risolvere un problema di salute e sta soffrendo.
2. Ognuno sa che potrebbe non funzionare (casistica: 60% terapia efficace, 40% terapia non riesce, devi sottoporti all’intervento).
3. Lo stress della quotidianità della procedura in sé.
Aleggia un penetrante odore di disinfettante.
La camera è piccola, di forma arrotondata, come un tubo in pratica. Dipinta di bianco e azzurro scuro, con sedili come quelli dei vecchi tram, dalla seduta ribaltabile, dello stesso colore delle pareti.
In alto corrono i tubi nei quali passa l’ossigeno, da dove penzolano maschere verdi (inquietanti solo a vederle) con elastici neri che ti dovrai stringere sulla faccia facendole aderire così tanto che non possa esserci altro passaggio d’aria che non sia l’ossigeno freddo ghiacciato sparato ad alta pressione.
Esatto, Alessia, per due ore al giorno sono qui dentro. E respiro ossigeno. In mezzo a perfetti sconosciuti che non parlano, che non raccontano, perché non si può proprio fare. Persone dagli sguardi differenti e un po’ persi che ogni giorno scendono sotto il mare per 15 metri.
Per respirare ossigeno.
Che va ovunque serve.
Per stare meglio forse sì, ma anche no.
Sono tra loro, Alessia.
E leggo.
Perché una volta che ti sei stappato continuamente le orecchie mentre scendi sotto il mare e sei arrivato in quota, non c’è altro che noia. E il terribile VVVVVVUUUUUUUUUUUUU dell’aria che circola a forza. Ah, e qualche clang, clang che di sorpresa ti distoglie dal libro e ti fa credere d’essere in un film del terrore ambientato in una nave che sta affondando.
Quindi io (come moltissimi altri – che, però, beati loro poi si addormentano – che invidia!) ho portato i libri per distrarmi.
Sto leggendo la lunga serie del Commissario Ricciardi, che mi pare indicata.
Sai il commissario che vede e sente i morti. Incredibile invenzione di Maurizio De Giovanni.
Condivido del Commissario Ricciardi tutto il peso della tristezza e la sua caparbia necessità di compiere il suo dovere.
Ecco, amica cara. Questa è l’ultima parte del gioco della vita che sto facendo. Sono convinta che lei si diverte molto più di me.
Spero ci si possa incontrare presto, magari se rientri per l’estate.
Fammi sapere come stai, comunque.
Sono curiosa di avere tue notizie!
Un abbraccio e un caro saluto