Dovevo uscire o sarei arrivato in ritardo all’appuntamento con Pollyanna. Avrei dovuto consegnare dopo due giorni la recensione de Il cardellino di Donna Tartt al Corriere, ma per la prima volta in vita mia avevo sottovalutato l’incarico e m’ero attardato a preparare sei lezioni per l’università di Bristol. Ero stato invitato a tenere sei lezioni di Letteratura Italiana comparata, mia specializzazione e passione. Devo confessare che mi ero proprio scordato della recensione. Polly, che conoscevo dal tempo dei tempi e che amavo da sempre, mi avrebbe aiutato e la scusa era valida per un nuovo incontro.
Mentre guidavo la bicicletta semidiroccata che usavo per spostarmi nel traffico cittadino mi tornarono in mente pezzi di descrizioni che mio padre mi faceva di lei, quando ancora non avevamo iniziato ad andare a scuola insieme e immagini improvvise rispuntate dalla mia memoria.
“Era esile e bassa per avere cinque anni e mezzo, molto sensibile e intelligente e che fosse intelligente e sensibile lo scoprivi subito dagli occhi profondi, luminosi e blu come il cielo di Grecia a mezzogiorno e dalla loro capacità di osservarti, rincorrendoti fin dentro i pensieri più nascosti e profondi.”
“Indubbiamente occhi inquietanti per una bambina dall’aspetto quasi macilento, dal volto pallido e asciutto, dai capelli lunghi fino alla vita, morbidi, lisci e albini, perennemente spettinati e arruffati, che le creavano attorno un’aura magica di luce riflessa.”
Ti guardava in silenzio e tu ti sentivi allo scoperto, nudo e analizzato da un laser alieno. Poi sorrideva come avesse inventato un gioco nuovo e si allontanava, lasciandoti solo a guardarla andare via, sempre in compagnia di un libro, e a immaginartela chissà dove.
Amava trovare posti segreti e nascondersi. Lasciare che la sua balia personale corresse in ogni angolo, sull’orlo dell’attacco isterico, per ore ore. Mentre lei leggeva, sorda ai richiami, libri che sottraeva dal comodino del nonno e che non poteva capire o che, forse, capiva nonostante la giovanissima età.
Aveva centinaia di posti, dove rannicchiarsi in solitudine, lontana dai discorsi difficili del nonno, che avrebbe tanto voluto essere in grado di interpretare, ma che la frustravano. Dalle chiacchiere insulse della nonna che parlava continuamente di moda e di stilisti alla moda, abiti alla moda, parrucchieri alla moda, scarpe alla moda, gioielli alla moda… E dalle battute ironiche degli zii, Alberto e Luisa, fratelli del padre, che in qualche modo la ferivano. In quell’immensa casa sulle colline Senesi, piena di stanze che nessuno abitava, traboccanti d’antiquariato e modernariato. Pezzi a volte unici, di noce o di frassino, di castagno o ciliegio, di rosa o teak, olmo o palissandro si susseguivano orgogliosi, striati dalle lunghe venature che sfumavano in gradazioni di tonalità decrescenti, tutti accuratamente mantenuti e accuditi da personale qualificato.
Polly era, in sostanza, orfana. Mamma e papà erano avvocati rampanti in carriera che l’avevano lasciata dai nonni una domenica, all’età di due mesi, e s’erano poi ‘scordati’ di riportarla con loro. Troppo stanchi e stressati per badare ad una bimba vivace ed intelligente come lei.
La madre, Virginia, fredda e altera, collaborava con uno studio di Milano. Il padre, Lucio, distratto e formale, era capo di un legal team aggressivo di Roma. Si vedevano poco, si riunivano poco, si sentivano poco. E poco vedevano Pollyanna che sembrava non accorgersi della loro mancanza, sempre con la testa ficcata tra le pagine di qualche libro, anche se per certo non tollerava il nome che avevano scelto per lei, né lo stupido gioco della felicità che tutti in casa continuavano a proporle come rimedio alla pesante assenza dei genitori.
Mi ricordo di non averli mai incontrati e di aver sempre visto una sola foto della coppia, conservata in una pesante cornice in peltro grigio, posata sulla consolle di palissandro traforato, accostata alla parete dell’ingresso più lontana e buia.
La mamma, bella da togliere il fiato, l’abito lungo verde cangiante con la collana luccicante e una camelia dai petali di cera infilata nel morbido nodo dei capelli, il papà nel suo abito scuro da cerimonia, la camicia bianca, il farfallino perfettamente annodato e simmetrico, con i capelli piuttosto lunghi e impostati dal gel.
Polly è cresciuta lì dentro e a scuola, con me. Per tutti gli altri rimaneva un enigma irrisolto.
Un mistero lo era anche per me, ma me ne sono innamorato appena ho guardato i suoi occhi e così ho camminato sempre nella sua scia, maledicendo a volte quel tormento e la mia incapacità cronica di imparare a camminarle al fianco.
Lei leggeva continuamente, come se da quell’infinita lettura dipendesse il suo respiro, la sua stessa capacità di assorbire ossigeno ed emettere anidride carbonica. La sua essenza.
Leggeva parole, lingue differenti, leggeva pennellate, note e leggeva le persone. Forse ha sempre letto anche i pensieri. I miei almeno.
Ero un po’ sudato dal pedalare nel caldo settembre e scesi dalla bici prima di arrivare al palazzo dov’era l’ufficio di Polly.
I genitori le avevano acquistato due piani in quel palazzo del centro, tutto vetri e modernità, e le avevano dato mezzo milione di euro per mettere in piedi una sua attività. Preoccupati per quella loro creatura così lontana e irraggiungibile. Così colta e così incapace di esprimersi.
Polly a scuola non era mai andata bene. Sapeva sempre troppe parole rispetto agli insegnanti e ai compagni. Alle superiori le sapeva anche in dieci lingue differenti. Capiva metodi di calcolo che gli insegnanti non avevano nemmeno sentito nominare.
La mediocrità spesso è meschina e di fronte al vero genio è crudele.
Polly capì presto il funzionamento del sistema e vivacchiò volando basso e parlando solo in casi eccezionali, mantenendo la sua media attorno alla sufficienza e isolandosi dagli altri studenti.
Alla fine del liceo sembrava che anche le nostre strade si sarebbero divise. Io volevo proseguire con l’Università e prendere laurea, dottorato e master in Letteratura Italiana. Lei sembrava voler spiccare il volo e proseguire per chissà dove. In quel periodo non riuscivo a dormire soffocato dall’impossibilità di vivere senza Polly.
Il primo giorno di lezione, appena seduto, la vidi arrivare e sedersi al mio fianco senza dire nulla. Ovviamente si laureò, pigliò il dottorato e conseguì una serie di master prima di me.
I soldi dei genitori li utilizzò per mettere in piedi una casa editrice che organizzava eventi e mostre, che traduceva e trascriveva testi, anche antichi e rari, per salvarli in digitale. Azienda che collaborava con Stati e Governi per la tutela di culture. Appassionante.
Agganciai la catena, legando la bici.
Salii le sei rampe di scale ed entrai nell’atrio della P&G.
La vidi arrivare in perfetto equilibrio sui tacchi spropositati e con un abito morbido a mezza coscia di seta color pesca che attenuava elegantemente la sua estrema magrezza, dichiarata apertamente dalle braccia sfilate lasciate scoperte.
Mi sorrise. Con quel suo sorriso sorprendentemente caldo e affascinante che non riusciva ad accogliermi né a rifiutarmi, che mi relegava lì, appena fuori dalla sua portata.
Mi abbracciò e mi baciò per finta a lato della guancia destra, per non macchiarmi con il rossetto.
Sussurrandomi: «Ciao Stefano. Come stai? È un piacere vederti!» con la sua voce profonda, da contralto, calda, carezzevole, dolce e affettuosa.
Poi si voltò e io la seguii raccontandole confusamente della recensione da scrivere, che non avevo avuto il tempo di prepararla. Se poteva aiutarmi dandomi qualche indicazione.
Nel suo studio, bianco, immerso nella luce del sole e che sembrava una cella monastica dalle dimensioni enormi, lei occupava un microspazio vicino alla finestra affacciata a sud ovest. Da dove vedeva arrivare la sera, mi aveva detto una volta.
Ci sedemmo alla scrivania, moderna e dalla linea sottile, sicuro design scandinavo, in legno di rosa, completamente sgombra; sulle due sedie abbinate, ma dalla seduta in materiale trasparente, scomodissime.
«Sei così sicuro che io l’abbia letto?» mi chiese.
«Sì e sono anche sicuro che lo hai fatto già lo scorso anno, quando è uscito in inglese!»
Mi sorprese con un commento personale, perché mi disse ridendo: «Mi conosci bene, allora! Comunque è vero. L’acquistai a New York. Libro affascinante! Prendi appunti?» mi sfidò ironica.
Se pensava che mi sarei perso l’occasione, si sbagliava di grosso e, infatti, tirai fuori dalla tasca della giacca il mio notes e la matita perenne appena acquistata e attesi.
Lei parlò per un tempo che mi parve breve, ma che mi permise di riempire tre pagine di grafia fitta, evidenziando i riferimenti a Oliver Twist, al giovane Holden alla storia di Carel Fabritius, a Dickens e poi dell’insegnante della Tartt all’università: Claude Fredericks. Mi spiegò i temi della narrazione: la solitudine, la dipendenza, i dipinti, gli autori fiamminghi e olandesi, i colori…
Fu senza dubbio il miglior materiale che io avessi mai raccolto per un articolo e quello che uscì, indubbiamente il mio miglior lavoro critico.
Con calma, cercando di prolungare il momento e di allontanare il distacco mi congedai e mi incamminai lungo il corridoio. Un attimo prima di arrivare all’uscita, mi voltai e la guardai, ferma sulla porta, colpita alle spalle da quell’enorme quantità di biancore luminoso.
Lentamente tornai indietro.
Io volevo tutta quella luminosità.