La meditazione sulla morte è un argomento scabroso a prescindere. Al solo sentire “morte”, i ragazzi si toccano e le ragazze iniziano la sequenza di scongiuri più collaudata.
La vita possiamo inventarcela tutti i giorni e possiamo raccontarci le bugie che servono, ma la lei è là, vera e immutabile.
Ricordo il giorno che ho iniziato ad averne paura: tredici anni, primo anno di liceo classico.
Ero consapevole della sua esistenza, come del bene e del male. Ma si trattava di una consapevolezza incosciente. L’accettavo, come accettavo il sorgere del sole e il tramonto.
Non mi aveva ancora toccata. Abitavo un mondo parallelo con pochi agganci alla realtà. Sognavo il Giappone. Avevo scritto più volte all’ambasciata a Roma e mi era arrivato molto materiale. Mi piaceva soprattutto una specie di rivista spessa dalla copertina verde, che gira ancora per casa e che raccoglie vari scritti sugli usi e costumi nonché una gran quantità di foto. Perdevo i pomeriggi a leggere e rileggere quelle pagine e a guardare le immagini di quel mondo che desideravo con una nostalgia struggente che mi stringeva lo stomaco. La via del te, l’ikebana, l’ukiyo – e, il Teatro Nō mi sembravano familiari più della quotidianità.
Sempre distratta, perciò.
Quella mattina, arrivata a scuola, mi resi conto che m’ero scordata del compito di latino e non avevo portato il vocabolario nuovo di zecca, come avevano fatto i miei sei compagni di classe. La versione era di Fedro: il vecchio e la morte. Giusta per il primo anno. Sembrava così facile. Un uomo anziano sta raccogliendo la legna e considera quanto sia difficile la vecchiaia. Stanco e dolorante si lamenta e alla fine invoca la morte. Lei arriva subito e gli chiede: «Vecchio, che vuoi da me?» L’uomo, spaventato, le risponde: «Volevo che mi aiutassi a mettere la fascina di legna sulle spalle.»
Traducendo quel testo persi la mia incoscienza e iniziai a meditare.
Ambra
😘