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spiaggia 2

Mi sveglio rattrappita e con in bocca il sapore terribile di una serata ubriaca o piena di troppi barbiturici. Non mi sento del tutto lucida. Apro gli occhi.
Una spiaggia bellissima, quella che vedo.
Il mare azzurro come il cielo, la sabbia bianca, il vento che soffia leggero.
Ma come ci sono arrivata qui?
A nuoto no, non so nuotare. Questo lo so con certezza.
Un’altra certezza è che conosco il mio nome: Patrizia Ricci.
Ma il resto è confuso. Nella nebbia totale.
Qualunque mezzo abbia usato per arrivare qui, qualunque percorso abbia fatto, qualunque compagnia abbia avuto fino ad un minuto fa, tutto s’è perduto lungo il cammino e adesso posso solo sentire il sole scottare la pelle, il vento riempirmi la faccia di sabbia; il sogno e la realtà confondersi.
Non ho altro a cui aggrapparmi, nulla che mi possa far sentire bene, dissipare il disorientamento.
Neppure i raggi impietosi riscaldano la profonda solitudine.
Devo fare qualcosa qui?
L’inquietudine mi fa osservare ancora lo spazio.
Non vedo strade, sentieri, o tracciati che possano far risalire l’alta scogliera che si innalza alle mie spalle. In cima ci sarà qualcosa?
Come posso arrivarci?
So scalare una parete così ripida, io? Non ne ho idea.
Potrei avvicinarmi, forse riuscirei a trovare un passaggio che da lontano non si vede.
Mi spaventa, però, avvicinarmi alla roccia.
M’inquieta.
Come il disagio della solitudine.
Così sola, sola, sola.
Sento il cuore che inizia a battere in accelerazione. Mi sta prendendo il panico, lo capisco.
Una sensazione che riconosco, come la solitudine.
Vorrei scappare da qui, in questo momento.
Ma ho le gambe molli.
Il sole brucia le lacrime e il sudore, il vento li appiccica di sabbia.
Mi ritornano in mente brandelli di una festa.
Io, in mezzo a un sacco di gente. So che ho un compagno a fianco, ma non lo ricordo e non riesco a vederlo nelle immagini che mi passano davanti agli occhi, come spezzoni di film disorganizzati. La sensazione che prevale è il forte disagio, anche se sorrido alle donne e agli uomini presenti, la solitudine pervade anche questo ricordo.
So che l’uomo accanto a me è l’uomo che amo, ma ne ho paura. Sento un brivido che mi attraversa. E tutto ricade nella nebbia.
Come sempre, perché so di conoscere il sintomo, il terrore si allontana un po’ alla volta.
Se devo rimanere qui, e sembra proprio che ci debba rimanere, dovrò prepararmi un riparo per la notte. Non so che ore sono, ma ho bisogno di costruire un riparo e accendere un fuoco.
Quando il sole non brucerà più non voglio trovarmi sola nel buio.
Avere uno scopo, un dover fare concreto, mi fa passare del tutto il panico.
Cammino lungo la spiaggia e raccolgo pezzi di legno spezzati dalle tempeste, spogliati dalle onde, lasciati dalle maree.
Li raggruppo lentamente in un punto che mi sembra il migliore. Uno spiazzo aperto, poco distante dall’inizio delle grandi palme, ma faccio molta fatica e sono tutta sudata.
Nel prendere maldestramente un ramo mi taglio il palmo della mano sinistra. Non è profondo, ma lungo. Brucia e sanguina molto. Mi guardo addosso, ho un vestito bianco morbido e pulito, sembra di seta, strappo un pezzo di gonna e lego la benda improvvisata sulla ferita. Per tamponare il sangue. Già solo il vederlo uscire, mi fa sentire debole, priva di forze e di aiuto. Sola.
Mi ritorna in mente un’auto. Nell’auto io sono seduta al posto del passeggero, il mio compagno al volante. Ancora non vedo il suo viso. Non mi ricordo il suo viso. So che alle mie spalle è seduto qualcun altro. Non so neppure se uomo o donna. La sensazione è di forte paura e tensione. Sento che discutono, le voci irriconoscibili e distorte, una lite violenta di cui non capisco nulla e che mi spaventa molto.
Mi viene da piangere. Le lacrime mi riempiono gli occhi, scivolano lungo le guance e cadono a formare circoli scuri e compatti sulla sabbia.
Perché non riesco a ricordare di più? Un’amnesia da trauma?
Da trauma cranico?
Mi tocco la testa per cercare un bernoccolo che giustifichi quest’assenza di memoria.
Trovo una lunga cicatrice che dal mezzo della fronte raggiunge la sommità del cranio.
Ok, sono stata ferita. Un’incidente? Non me lo ricordo.
Tornano frammenti della festa. Invitati con cui parlo in inglese, di beneficenza e di qualcosa che rimane nebuloso. Qualcosa che riguarda il mio compagno, l’uomo che non ricordo, al mio fianco. Vedo l’invidia negli sguardi di molte donne, che non sanno celarla con un sorriso impassibile, non mi piace la sensazione che mi da l’essere invidiata. Ricordo quel disagio, ma anche la paura che sentivo quella sera. Paura e tensione. Solitudine anche. Ma ancora non riesco ad inquadrare bene la scena: è alla fine di quella festa che ho avuto l’incidente? Dov’era quella festa? L’ambiente che vedo non mi sembra familiare.
Sento la solitudine che mi soffoca.
Mi son persa da qualche parte, mentre andavo in qualche posto e non riesco a trovarmi. Di nuovo un’onda di panico, sale forte e prepotente, mi distrugge lo stomaco, l’intestino. Tremando mi rannicchio in posizione fetale nella sabbia assolata. Se chiudo gli occhi posso farlo sembrare un abbraccio caldo di mamma. Rimango ferma finché non passa.
Sto pigliando farmaci? Per questo sono così confusa?
Ma da dove li prendo?
Mi alzo e ricontrollo attentamente tutto il paesaggio attorno a me. Probabilmente in cima alla scogliera ci sarà un paese. Dovrei andare a cercare, a controllare, ma ho un rifiuto.
Ricomincio a raccogliere legno.
La fatica mi fa sudare e sudare mi fa venire sete.
Scelgo un paio di noci di cocco e le rompo a fatica con un bastone. L’acqua si perde quasi tutta, ma anche mangiare la polpa bianca, mi disseta abbastanza.
Mi sconcerta sempre più il non sapere perché sono qui e cosa ci sto facendo.
Non riesco a trovare nessuna spiegazione, nessun motivo.
Sento la sera insinuarsi piano nel sole del pomeriggio e decido di provare ad accendere il fuoco con le foglie di palma secche e i pezzi di legno che ho trovato.
So che se faccio girare in fretta un bastoncino fra i palmi delle mani e con la punta ben ficcata in un altro pezzo di legno posso produrre una scintilla e incendiarlo. Per sicurezza soffio con costanza dove dovrebbe scaturire la fiamma.
Ci provo parecchie volte, ma non ci riesco. Probabilmente la ferita alla mano con la bendatura di fortuna, m’impaccia.
Sono delusa. Come farò al buio senza il fuoco?
Le ombre s’allungano e il sole s’abbassa sempre più velocemente finché non si tuffa nell’acqua e poi vi entra del tutto.
Ancora un po’ di chiarore e io, qui seduta sulla rena rimasta tiepida, ad abbracciarmi le ginocchia. Completamente inutile, incapace di ricordare e completamente sola.
All’improvviso mi sento così spossata! Il sole m’ha abbandonato e non rimane più nulla per cui rimanere vivi. Una stanchezza terribile mi fa rannicchiare a terra, posizione fetale, braccia incrociate e mani davanti al viso. Mi sento scivolare nel sonno.
«Signora Smith. Signora Smith!»
Qualcuno mi scuote dolcemente la spalla per svegliarmi, con estrema delicatezza.
«Signora Smith può svegliarsi per favore?»
La ragazza è giovane e vestita con la divisa da infermiera.
«Venga signora, perché è scappata di nuovo? Venga, abbiamo passato ore a cercarla. Il medico l’aspetta per la sua iniezione. Ma che ha fatto alla mano, faccia vedere. O santo cielo, che taglio! E ha anche rovinato il suo Armani preferito. Venga su coraggio, che la sistemiamo per la notte.»
«Ma tu sai chi sono?» Le chiedo scioccamente.
«Certo! Lei è la signora Smith. La moglie del vicepresidente della Nationat Trust. Venga.»
Mi aiuta ad alzarmi.
La seguo. Lei sembra così certa di dove dobbiamo andare che la seguo, sollevata.
E sembra dolce, sembra.
«Non ricordo nulla.» le dichiaro sulla difensiva.
«E tutta colpa dell’incidente Signora. Ma vedrà che prima o poi, magari di colpo, ricorderà tutto. Anche il dottore ne è sicuro.»
Le chiedo: «dove stiamo andando?»
«A casa, sopra la scogliera. Lì in fondo inizia il sentiero, l’architetto è stato bravissimo, l’ha nascosto proprio bene, che non sfigurasse il dirupo della scogliera.»
«Ah, già. Bravissimo.» Non mi ricordo l’architetto, ma sono sicura di averlo portato in cima alla scogliera, proprio sul ciglio e di avergli spiegato come volevo il sentiero.
«Lo ricorda?» mi chiede la ragazza con occhi speranzosi.
«Chi?»
«L’architetto!»
«No. Non lo ricordo.» Sento che è meglio non sappia che inizio a rammentare qualcosa. Sembra così carina, ma ha gli occhi duri di chi ha una missione.
«Ah!» mi risponde delusa.
Mi lascio condurre sul sentiero nascosto, che porterà alla casa nascosta che nessuno può vedere dal mare e che all’improvviso ricordo. Ampie vetrate aperte nel legno scuro che si mimetizza tra gli alberi. Mi ricordo che, da quella più grande, che si apre sul salotto, si può vedere un pezzo di spiaggia e il mare. E’ la mia casa, forse. Non lo so.
Io sarò lì dentro, comunque, fra poco. Alla luce e al sicuro. Piena di farmaci. Con null’altro da fare che ricordarmi di me stessa.
O tenuta appositamente sospesa sopra i ricordi, fuori dal tempo e dalla vita, perché non possa ricordare mai?

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