Vorrei stiracchiarmi al sole di un’isola lontana, sopra una spiaggia dalla sabbia sottile e bianca, con la risacca che scandisce il tempo.
Consapevole di essere lontana. Al sicuro.
Non mi piace star qui al settimo piano del palazzo centrale della Banca per Risparmio e Prestito, nell’ufficio del manager Michele Giannetta, morto stecchito.
Vorrei diventare invisibile, se solo trovassi l’anello perduto di Gige, descritto così bene da Platone!
Il tempo, però, ne ha cancellato le tracce e per uscire da qui devo trovare una soluzione pragmatica. Stridìo di freni. Guardo dalla finestra. Corpo speciale al completo.
Sono arrivati prima di quanto avessi previsto!
Sto diventando troppo lenta o loro migliorano i tempi di reazione?
Sette anni sul mercato. Può essere che abbia perso la voglia di correre. Che non m’attiri più la sfida del giocarmi la carriera o la vita!
Mi guardo attorno per trovare la via di fuga.
Oggi sono troppo intrippata nella filosofia e questo mi rallenta.
O sto portando al limite la sfida?
Non solo vincere, ma vincere in una manciata di secondi?
Concedermi sempre meno vantaggio?
In realtà non ho neppure studiato una via di fuga. Le riconosco a naso, quando le vedo, le catalogo senza pensarci. Sono consapevole che esistono e dove si trovano.
Oggi non ho pianificato.
Se la via che scelgo adesso si rivelerà bloccata o se si verificherà un intoppo qualunque, sarò in trappola.
Li sto fregando da sette anni e se mi beccassero non credo che mi lascerebbero andare impunemente.
No, non è vero.
Sono sempre io che scelgo.
Se mi prendono li porterò ad un punto tale da farmi fuori.
Credo di averne le tasche piene di questa faccenda.
Raccolgo il mio materiale, lo ficco a forza nella mia piccola borsetta, ed esco dalla stanza. Il corridoio è ancora libero, bene.
Cerco di avvicinarmi all’ascensore, ma mentre lo faccio le porte si aprono ed escono gli uomini del nucleo speciale, armati di tutto punto.
I loro ordini, lo so per esperienza, sono: non pensare, raggiungere l’obiettivo, sgomberare il campo, proteggere eventuali testimoni.
Mi guardano e valutano quello che vedono: donna bionda alta, magra, senza seno, trecce lunghe, occhiali dalle lenti un po’ spesse, denti leggermente in fuori. Giovane. Tuta di jeans, camicia bianca e scarpe da ginnastica. Tuta aderente sul girovita, appena abbondante. Borsetta piccola verde scuro. Innocua.
Non mi vedono realmente.
Mi fanno cenno di spostarmi, di allontanarmi in fretta e di scendere per le scale. Sicuri che prima o poi qualche collega m’intercetterà e mi tratterrà per un interrogatorio.
Il palazzo, mi sa, lo conosco meglio di loro.
Li assecondo e scendo le scale presidiate. Appena raggiungo un piano che non considerano caldo, la sorveglianza si dirada e inizio a muovermi più sciolta e alla fine posso agevolmente scivolare dentro al vano scale che porta al sotterraneo e da lì raggiungere il garage.
Rimango nascosta per quei pochi minuti che servono ai due ragazzi in divisa, di guardia alla porta, per mettersi a chiacchierare e chinarsi sulla fiamma di un accendino. Riesco a sgattaiolare, del tutto ignorata, sul marciapiede.
Bene, anche se questi due dovessero notarmi ora non avrebbe più importanza, mi registrerebbero come passante.
Attraverso la strada e mi perdo tra la folla accalcata sul marciapiede opposto.
La parte difficile è fatta, ma devo uscire dal perimetro di rischio per sentirmi tranquilla. Mi porto nella zona folla più rada.
Apro la borsetta, la giro su se stessa e ne faccio uscire dei lembi sottili che l’ingrandiscono. Adesso la borsa è grande e blu. Mi guardo attorno.
Nessuno fa caso a me. Con gesto disinvolto mi tolgo la parrucca bionda e la metto nella borsa.
Tutti, sul marciapiede, guardano in direzione del palazzo di fronte e sfornano teorie su quanto sta accadendo.
Faccio attenzione e con prudenza mi tolgo la dentiera posticcia con i denti in fuori.
Cammino lentamente e mi allontano. Raggiungo un bar, entro e vedo che dietro al bancone non c’è nessuno, tutti fuori a guardare che succede.
Camminando all’indietro raggiungo la porta del bagno, nessuno, davanti alla vetrina si gira a guardare dentro ed entro con sollievo.
Anche lì nessuno.
Veloce mi tolgo la tuta jeans e la camicia bianca.
Rimango con un vestito di velluto nero stretch, molto aderente e piuttosto corto e le calze nere velate. Dalla borsa tiro fuori le ballerine verdi, che indosso al posto delle scarpe da ginnastica.
Stendo la tuta per terra e metto tutto in mezzo: la camicia, le scarpe, la parrucca, la dentierina. Mi tolgo gli occhiali e li metto in cima al mucchio.
Faccio un bel fagotto ben stretto e lo caccio nel cestino dell’immondizia.
Ripiego la borsa, che torna piccola e verde.
Mi aggiusto i capelli castani a caschetto e tolgo le lenti a contatto azzurre che faccio cadere nel water e che faccio sparire tirando l’acqua.
Mi sento meglio.
Massimo un quarto d’ora e sarò a casa.
Esco dal bagno, il locale è ancora deserto.
Osservo la linea di schiene davanti alla vetrina, nessuno mi ha notato. Mi avvicino alla porta ed esco.
Cammino lungo il marciapiede con andatura indifferente mentre osservo ogni particolare.
Finalmente raggiungo il perimetro di rischio e lo vedo subito, lì, poggiato alla mia macchina, che mi aspetta.
Sono sicura che non mi può fare nulla, ma l’ansia mi fa galoppare il battito e respirare corto e breve. Me ne accorgo in tempo e inizio una respirazione profonda, di pancia.
Per sicurezza riesco a darmi anche due pizzicotti sulle guance prima che il commissario De Lucia mi veda e s’illumini.
“Ciao!” mi dice subito: “Bella la tua auto nuova! Sapevo che saresti arrivata qui”
“Ciao Diego, come te la passi?”rispondo “Cosa stai facendo da queste parti?” Anzi cosa state facendo qui?”
“Ossignore!” impreca lui: “Non mi risparmi almeno una parte della solita scena?”
“Che scena?” io candida.
“Come vuoi. Taglio corto io, allora. Come sempre. Hai la macchina fotografica con te? Me la puoi dare? Tanto son sicuro che come al solito avrai già spedito le foto in redazione. Non riesco mai a beccarti sul fatto. Buon per te!”
“Dove pensi che la possa nascondere una macchina fotografica, dato il mio abbigliamento? Sto tornando da un aperitivo tra amici e rientrando a casa per godermi il resto del week end in pace!” mento spudoratamente.
Diego mi prende la borsa e trova senza sforzo la compattina che utilizzo per questi casi e che lui trova tutte le volte. Come sempre mi sequestra la memory. Sa che non ci troverà un tubo, ma lo fa ancora.
“Non ne hai il diritto, lo sai!” gli dico.
Risponde: “Certo che sì! Tu ci sei sempre quando questo pazzo uccide qualcuno! Sei presente sempre prima di noi! Sono sette anni che hai l’esclusiva e che il tuo articolo invade la stampa per primo e con le foto migliori della vittima!”
“Non c’è niente nella memory che mi hai fregato!”
“Lo so, lo so! Ma un giorno o l’altro ti beccherò sul fatto e ti accuserò di complicità!”
“Complicità? E in cosa, scusa?”
“Va bene, continuiamo la sceneggiata: hanno ammazzato un altro squalo della finanza, Michele Giannetta. Stessa modalità. E tu sei qui. Esattamente come le altre sei volte. Credo che stavolta ti farò convocare dal giudice! Sono stufo di averti tra i piedi.”
“Va bene. Lo sai che arriverò con un avvocato e che non dirò nulla. Anche in quest’Italia disfatta rimane comunque valido il mio diritto a difendere le fonti.”
“Ok, ‘giornalista’. C’è un gi
udice nuovo! Vedremo come la metterà. Prima o poi beccheremo te e anche lui.”
“Già, prima o poi… Adesso fammi andare, che è tardi.”
Lui si scosta e mi permette di salire in auto mentre giocherella con la memory.
Metto in moto e mi allontano, salutandolo con la mano, ironica.