Blog

ONORE

«Rimanga qui, per favore. Ancora cinque minuti e la chiameranno nello studio di fronte per la registrazione. Non si muova però, che straziano me, poi, se non la trovano!»
«Non si preoccupi. Non è la prima volta. Anche se questa è la più grossa sede televisiva nella quale sono stato!» sorrido al tizio per rassicurarlo e lui se ne va trotterellando in fretta.
Ho imparato ad utilizzare questi brevi tempi in solitudine per riordinare i pensieri, per concentrarmi, per ripassare la scaletta della conversazione.
Devo impedire che la giornalista gestisca la mia storia, ma non devo prevaricarla. Mi devo organizzare e centrare mentalmente.
Chiudo gli occhi e mi dedico ad infilare in un cordone i ricordi uno dietro all’altro, come grosse perle di granito rosso e come mi ha insegnato mio padre.
In questi due ultimi anni i problemi del suo lavoro erano cresciuti in modo esponenziale. L’ho visto arrancare faticosamente nel tentativo continuo di trovare soluzioni, senza mai perdere la sua compostezza. Solo di poco più accigliato, mentre praticava l’insegnamento orientale che permette d’ingessare le emozioni.
Questo aspetto di lui non l’avevo mai capito fino in fondo, inserito come sono nella mia italianità integrale.
Mi ha raccontato centinaia di volte di come il nonno aveva voluto andarsene a lavorare in Giappone. Aveva trovato un ottimo posto come ingegnere, ma non volendo separarsi dalla famiglia, si era fatto raggiungere dalla moglie e da mio padre.
Aveva spesso sorriso nel vuoto mentre riviveva la sua meraviglia di bimbo, a sei anni nell’immensità di Tokyo.
Più volte mi aveva ribadito quanto era stato influenzato, intagliato e piegato da quella cultura nei dieci anni passati laggiù. Soprattutto mi aveva affascinato con le descrizioni di quel suo amico, Akihito, che gli aveva concesso di meritare la sua amicizia e aveva fatto di lui un guerriero, e di sua sorella, Midori, che aveva sfibrato il suo primo immortale innamoramento adolescenziale, e della loro famiglia, antica come i secoli e composta solo da valorosi.
Gli avevano scalzato da dentro l’occidente, avevano provato a fare di lui un samurai. E mio padre lo era diventato, probabilmente per affinità elettiva.
Quando era tornato, però, quel samurai così cresciuto, gli era pesato, ostacolando il suo reinserimento nella quotidianità italiana. Qualche volta perfino io sono riuscito a intravederne il disagio.
Negli anni, a più riprese, mi era parso strano averlo a fianco sempre così pacato, quieto, retto e nobile mentre gli altri padri sbraitavano, sculacciavano, tifavano, abbracciavano.
Ne era nata una distanza tra noi e la mia voglia di sfidarlo per diventare più bravo ad inamidare i sentimenti nei suoi confronti.
Lasciava in giro libri sullo zen, sulla civiltà nipponica, sull’arte della spada. Non li leggevo, ma aspettavo che ne raccogliesse uno, che mi facesse sedere accanto a lui e che si mettesse a leggere per me. Li ho divorati di nascosto solo in seguito.
Nel lavoro, come nella vita, ha voluto e disposto di rimanere entro confini scavati dal suo ideale di correttezza, di rispetto e di onore.
Papà, ma aveva veramente un senso, nella nostra società globale e corrotta, a volte verminosa e putrescente, intestardirsi a perseguire valori così apertamente antiquati come l’onore e il rispetto? Davvero, papà, in un mondo dove l’uomo d’onore o l’uomo di rispetto sono da sempre qualifiche per i gregari mafiosi, aveva davvero un senso voler essere un uomo d’onore?
Dell’altro onore: quello della buona reputazione, della rispettabilità, dell’onestà, della rettitudine, della stima di sé e della coerenza morale?
O un uomo di rispetto?
L’altro rispetto: quello che sentivi di dovere a te stesso, agli altri, ai vicini, ai conoscenti, ai concorrenti, ai rivali?
Mi alzo e faccio il giro della stanza tre volte. Non va bene. Non posso permettere alla rabbia di gestire il mio sentire. Cammino ancora per qualche minuto respirando ritmicamente con la pancia e pensando ad altro.
Più padrone di me, mi risiedo sulla stessa sedia di plastica rossa, che ha ancora la seduta tiepida. Allungo le gambe in avanti e poggio la testa sul muro bianco. Chiudo gli occhi.
Mio padre non ha mai voluto scendere a compromessi.
Lo avevo visto sprofondare nello sconcerto mentre il suo modo di vivere s’infrangeva contro la realtà del business italiano degradato ancor più dalla crisi: pullulante di gente vigliacca, dal doppio gioco facile, dalle capacità camaleontiche.
Lo avevo visto artigliarsi al suo rigore senza voler arrendersi, per restare vero e in pace. Per rimanere un samurai.
Quando mi aveva chiamato per avvisarmi ufficialmente che l’azienda fondata dal nonno e fatta prosperare da lui era sull’orlo della bancarotta e che avrebbe dovuto licenziare e chiudere, avevo capito il suo dolore, avevo visto l’onta che lo affossava. Ero sicuro che non avrebbe vacillato; ma, certo, non avevo previsto il suo gesto.
La mattina che mi aveva chiesto di accompagnare mamma in montagna da un’amica, nessuna premonizione aveva avvertito il mio inconscio. Ci eravamo allontanati, io e lei, salutandolo con serenità, come d’abitudine.
Al rientro, nel tardo pomeriggio, la casa e il capannone erano bui e silenziosi.
Solo allora un presagio mi aveva scosso la schiena. Ero corso nello stabilimento accendendo tutte le luci sempre più velocemente.
Nel cuore stesso della sua fabbrica, lo stanzone con i giganteschi macchinari, tutto era pulitissimo. Al centro esatto un lenzuolo bianco da rituale e una piccola, preziosa stuoia di seta rossa intrecciata a fili d’oro. Sopra, due vasi bianchi con rami di gelsomino della mamma; una delle sue stampe preferite e il cartoncino con l’haiku che aveva scritto per me, tempo addietro:

Nuvole a mezzogiorno
Freddo lungo i giardini
Ghiaccio serale.

Il fodero del suo tanto, la sua Katana.
Lo avevo trovato.
Indossava il più prezioso dei suoi kimono da cerimonia, in seta nera. Era in ginocchio in mezzo al bianco, le punte dei piedi rivolte all’indietro; il busto onorevolmente chino in avanti, proprio come doveva presentarsi ogni samurai dopo il seppuku.
Se avessi potuto alzare la parte superiore del suo corpo avrei svelato lo squarcio che si era auto inflitto nell’addome, sede dell’anima, partendo da sinistra e procedendo verso destra, con uno strappo finale verso l’alto. Per mostrare al mondo la purezza dei suoi intenti e la sua anima priva di colpe.
Avrei trovato anche il suo pugnale con una parte di lama avvolta nel lino bianco e avrei visto il suo viso deformato dal ghigno della sofferenza perché aveva dovuto privarsi del conforto di un Kaishakunin, l’amico fidato che ritto alle spalle, attende impugnando alta la katana pronto a decapitare, prima che il dolore possa sfigurare il volto.
Sono caduto sulle ginocchia e ho urlato scompostamente tutta la mia rabbia e ho pianto per averti perso, papà.
Ho chiamato chi dovevo e ho iniziato da subito a fare da interprete. Conosco la filosofia che ha segnato le sue scelte, i suoi principi e il valore che ha dato a ogni decisione. Per questo è così importante l’incarico che sto affrontando e che scelgo di affrontare per lui: spiegarli, tradurli e farli conoscere.
A volte sento il peso e la difficoltà di far capire a persone che vivono come fosse normale fregare, aggirare le leggi e le regole, approfittare e vendere la propria dignità il fatto che mio padre abbia scelto di riesumare a modo suo un rituale scomparso da tempo per dimostrare la sua integrità, per protestare contro una corruzione capillare…
«Signor Rossi?»
«Sì, sono io.»
«Venga. Venga che la signora l’aspetta.»

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *