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UnBicchierediPaura

Il ristorante era ancora vuoto, avvolto in una penombra che lasciava spazio al crepitìo lontano di una vecchia canzone rock.
Le luci soffuse illuminavano i contorni dei bicchieri e delle bottiglie, come se volessero dare una sorta di dignità ai silenzi degli avventori.
Lui era seduto in un angolo del piccolo banco del bar, curvo sul bicchiere di whiskey con uno sguardo che cercava di perforare il fondo di vetro.
Lei, invece, stava mescolando distrattamente un gin tonic in piedi, fissando il ghiaccio che si scioglieva lentamente.
Non era la prima volta che si trovavano lì, nello stesso ristorante, alla stessa ora. Ma nessuno dei due ne era consapevole e non si erano riconosciuti. Ognuno troppo concentrato su se stesso.

Quella sera, però, per la prima volta, i loro sguardi si incrociarono.
Lui si schiarì la voce, spinto da qualcosa che nemmeno sapeva definire.
«Vuoi sederti?» disse, indicando il posto accanto a sé.
Lei alzò un sopracciglio, sorpresa. Poi sorrise, con quella stanchezza che rende i sorrisi meno luminosi, ma più reali: «Perché no?»
Si sedette accanto a lui.
Il barista si avvicinò per chiederle se volesse un altro drink, ma lei fece cenno di no.
Restarono in silenzio per un po’, ascoltando la musica di sottofondo.
«Sembri pensierosa», disse lui, rompendo il ghiaccio.
Lei rise piano, senza guardarlo. «Sembri un esperto di pensieri pesanti.»
«Non è che ci vuole molto. Lo vedo tutti i giorni quando mi guardo allo specchio.»
Lei lo guardò di lato, come per valutare se fosse sincero.
Decise di esserlo anche lei. «Ho paura» ammise, senza preavviso.
Lui annuì lentamente, come se quella parola fosse continuamente nella sua testa.
«Cosa ti spaventa?»
«Il vuoto» rispose lei, con un filo di voce. «Sto cercando di salvare un matrimonio che forse non può essere salvato. Ogni giorno mi sveglio chiedendomi se sarà il giorno in cui tutto finirà davvero. Ho paura di cosa significa stare sola, e ho paura che la mia vita, come l’ho sempre immaginata, sia già morta. E tu?»
Lui rimase in silenzio per un attimo, poi si fece versare un altro bicchiere. «Un dottore, qualche settimana fa, mi ha detto che c’è una massa sospetta nel mio stomaco. Ho paura di quello che significhi. Paura che il dolore che provo non sia qualcosa che passerà. Ho paura di non avere abbastanza tempo per fare tutte le cose che ho rimandato.»
Lei lo guardò, la testa leggermente inclinata.
Non c’era pietà nei suoi occhi, ma qualcosa di più profondo: riconoscimento.

«È strano, vero?» disse lui, passandosi una mano nei capelli «La paura. Ci schiaccia, ma allo stesso tempo… ci tiene vivi.»
Lei annuì. «È come un animale. Ci costringe a reagire. A scappare, o a combattere. Mi chiedo se avremmo mai inventato qualcosa di buono, noi umani, senza la paura a spingerci.»
«Già. Senza paura saremmo ancora in una caverna a grattarci la testa e a guardarci intorno, ignari di cosa significhi essere vivi.»
Lei sorrise, un sorriso che aveva un tocco di amarezza. «Eppure, quando la paura arriva, sembra la fine. Come se fosse impossibile sopravvivere al momento.»
Lui annuì. «Però, pensa a tutte le volte che ce l’abbiamo fatta. Che sei arrivata dall’altra parte. Magari ammaccata, diversa, ma ci sei ancora.»
Lei si mordicchiò il labbro, riflettendo. «Hai ragione. La paura non è mai eterna. Ma ti cambia. Ti rende qualcun altro.»
«Magari qualcuno di più forte» disse lui, alzando il bicchiere.
Lei fece lo stesso. «O, almeno, qualcuno di diverso.»
Brindarono in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. La paura, pensarono entrambi, non li avrebbe lasciati quella notte. Ma, per qualche motivo, condividere quella sensazione l’aveva resa un po’ meno pesante.
Fu lei a parlare per prima, rompendo il silenzio.
«Forse non è un caso che siamo qui, stasera. Due perfetti sconosciuti che parlano di qualcosa che di solito si tiene nascosta.»
«Forse» rispose lui «è la paura che, a volte, ti porta esattamente dove devi essere.»
Lei annuì, fissando il ghiaccio ormai sciolto nel bicchiere.
«Già. O magari è solo un luogo, e siamo due persone che non avevano voglia di andare a sedersi al tavolo dove qualcuno aspetta.»
Lui rise, per la prima volta quella sera.
«Anche quello potrebbe avere senso.»
Restarono lì ancora un po’, in silenzio.

Non si dissero addio quando lei si alzò e andò nella sala da pranzo, e lui non cercò di trattenerla.
Entrambi sapevano che, in quella sera qualunque, qualcosa era cambiato.
Perché a volte basta una conversazione, un bicchiere condiviso e una paura riconosciuta, per accorgersi che, forse, non siamo mai così soli come pensiamo.

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