Pioveva con calma. Gocce fini, fini cadevano sui tetti. Sembravano invisibili, ma rimbalzavano sulla superficie scura delle pozzanghere creando serie sovrapposte di cerchi concentrici. Il silenzio era rotto dal fruscio sonnacchioso che scendeva nella grondaia grigia lucida, intasata dalle prime foglie autunnali traviate da un vento allegro e rimaste appiccicate allo scolo.
L’acqua non si perdeva d’animo e tracimava compassata in una lunga lacrima che si scioglieva in rivoli lunghi e pesanti che precipitavano giù, di testa, e sparivano nella ghiaia del vialetto.
Altre piccole righe si riunivano in una goccia panciuta che, con prudenza, scendeva il ripido tubo di scolo e atterrava sul marciapiede bianco e grigio, portandosi appresso frammenti di ruggine rossa.
Il groviglio della siepe, fremeva. Ogni goccia squilibrava le leggere foglie che si abbassavano colpite di sorpresa, e che poi, con continua pazienza, tornavano al loro posto, per riabbassarsi e poi rialzarsi. Il verde sgargiante stillava dalla punta inclinata gocce trasparenti, ad intervalli regolari, che piombavano di botto sulla foglia appena sotto che a sua volta fremeva, raccoglieva e faceva cadere giù.
La ringhiera si riscopriva grigia scura, lavata dal passaggio veloce di goccettine indaffarate che le si strusciavano addosso per atterrare più in basso sulle prime foglie gialle, dove rimbalzavano in un gioco divertente. Ricadevano sull’asfalto e si univano nel rivolo del canale di scolo in una corsa pazza ed entusiasmante che diventava un salto mozzafiato dentro al tombino.
Nell’aria già tutta smorzata, stile tranquillo crepuscolo, i fari si allungavano in scie luminose bianche o rosse mentre le gomme, compiaciute, sparavano archi d’acqua che calavano scrociando sul marciapiede e su scarpe, pantaloni, cappotti imprudenti che sciacquettavano pericolosamente vicini al bordo.
Suonò il telefono, dovetti andare.