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Esco dallo studio della psichiatra con la busta che contiene la diagnosi e la ricetta.
Una ricetta bianca.
Deludente, la mia prima visita psichiatrica. Veloce e quasi inutile, sembra.
Mi sento diversa, però, con la ricetta in mano; perciò mi guardo attorno.
C’è ancora la donna gigantesca con gli occhi piccoli e ravvicinati, appena un po’ strabici, in bilico su due sedili, che suda grondando.
C’è ancora la mamma di una bellezza abbagliante che cerca di tenere a freno il figlio, avrà due anni, che vuole arrampicarsi sui sedili.
C’è ancora, dietro il vetro protettivo, l’operatrice acida e filiforme che non finiva più di farmi domande per vedere se davvero ero io ad avere l’appuntamento delle 15 con la Dottoressa Gatto.
No, dico, ma chi vuoi che venga a farsi una visita allo psichiatrico al posto mio? Con i miei documenti e la mia faccia da pazza persa?
Mi avvicino alla finestra, che s’affaccia sull’entrata dell’ospedale. L’ambulanza con i portelloni posteriori spalancati è ancora lì, inquietante.
Sto divagando. Perdendo tempo o prendendo tempo.
Dicevo, se tutto è fotografato nell’attimo, sono cambiata solo io.
La mia prima ricetta psichiatrica m’appesantisce l’umore e grava il respiro. Potrò guarire?
Se avessi ascoltato la psichiatra Gatto, magari, avrei la risposta. Strano, però, una psichiatra così poco carismatica. Un po’ assente anche lei. Nebbiosetta come la giornata.
La soluzione comunque ce l’ho: aprire la busta e legge ricetta e diagnosi.
Però aspetto. Meglio una speranza di guarigione che la certa vita di pillole a cadenza regolare.
Da un lato sembra assurdo: io. Una depressa maggiore.
Però ho in mano una speranza.
Non sono riuscita a capire perché mi son ammalata di depressione, maggiore o minore. Non ho capito perché m’è capitato addosso il mal di vivere, il male oscuro.
La psicologa fin dall’inizio mi ripeteva che non dovevo accanirmi, che la risposta sarebbe arrivata.
Tutti quei mesi, che fatica la terapia della parola!
Alla mia doc sembrò che non facessi progressi abbastanza rapidi e decise di scomodare anche la psichiatra.
«Ma davvero son matta tale da psichiatria?» mi informai.
La mia doc borbottò: «Signora lei è depressa non matta. Lei è malata non matta. Lei deve curarsi anche dallo psichiatra, se glielo consiglio io. La sua è una depressione maggiore, capisce? Non è un gioco.»
Va beh, m’ero arresa.
Noi depressi, depressi maggiori, ci arrendiamo facile.
Forse davvero son matta e lo psichiatrico è il mio posto.
Nel frattempo avanzo piano, piano lungo l’interminabile corridoio. Leggo tutti manifesti. E uno sguardo ai volantini abbandonati sui tavoli bassi e ultramoderni di plastica riciclata, vogliamo non darlo?
Direzione: uscita.
In realtà: perché ho accettato di farmi trascinare in psichiatria?
Non è stata un gran che come visita. Anzi, meglio dire, come incontro con una donna con addosso un camice in un ufficio angusto e soffocante pieno di piante grasse dagli aculei lunghi, sottili e acuminati.
Aculei tipo istrice o riccio. Che sono diventati ipnotici.
Mi sono concentrata talmente sul loro aspetto, sulla loro forma, sul fatto che alcuni fossero tutti bianchi, altri avessero la punta marrone, che mi son scordata d’essere depressa. E non ho ascoltato la Gatto, che, però, m’ha lasciato divagare, anche assentarmi da lei, senza impormi assertivamente la sua presenza. Lo psichiatra deve essere differente? Meno pressante di uno psicologo?
Chissà se l’aveva fatto apposta? Mettere tutte quelle piante: un test per i suoi depressi?
Depressi maggiori.
Comunque sento che la busta in qualche modo mi ha cambiata, ma son lenta e bradiposa.
C’è una soluzione? Potrò guarire?
Scendo i gradini, uno alla volta, attenta a me e alle scale.
Attraverso l’atrio, la porta d’ingresso e passo di fianco all’ambulanza con le porte posteriori spalancate, a passo pesante di formica.
Arrivo, comunque, ed entro in macchina, guardo la busta, la soppeso, la studio.
L’apro con calma.
Foglio diagnosi: ”Gentile collega, bla, bla, bla; paroloni, paroloni, paroloni.” Conclusione: “Deduco che la paziente non è affetta da depressione, né da depressione maggiore. La paziente è solo oppressa dalla sua quotidianità reale.”
Ah. Ok. Grazie doc Gatto.
E allora? Che ha scritto nella ricetta?
“Viaggio. Minimo venti giorni dove più aggrada. Da ripetersi a piacere.”
Son basita davvero e fisso la ricetta bianca molto a lungo.
Lo sapevo, io. Ricetta bianca. Non mutuabile. Che fregata.
Poi alzo gli occhi, quasi per caso, ma nulla è per caso.
L’ambulanza è ancora ferma davanti alla porta d’ingresso, i portelloni posteriori sempre aperti.
Uno svolazzante camice bianco schizza velocissimo dall’uscita e attraversa correndo all’impazzata il parcheggio, perde una scarpa e si rallenta permettendo ai due infermieri che lo rincorrono di guadagnare terreno. Alla fine, povero camice, viene agguantato e strattonato e tirato e guidato e diretto verso il ventre prigione dell’ambulanza.
E allora vedo il viso che galleggia sopra il camice, i tratti sconvolti e gli occhi fuori dalle orbite: è la Gatto.
Ah, adesso mi spiego. La mia immane sfiga. Non ho incontrato la psichiatra Gatto. Ho incontrato una matta, come me.
La depressione, tenuta al guinzaglio dalla speranza in una ricetta, m’invade in pieno.
Dove troverò il coraggio per una nuova visita psichiatrica? Da uno psichiatra certificato, ovvio.
Ce la farò ad affrontare per la seconda volta la prima volta dalla psichiatra?

Comments(4)

  1. Sai raccontare molto bene, c’è una sensazione di verità che coinvolge ..
    Fino alla sorpresa finale!

    1. Grazie mille!!!
      Mi fa piacere ti sia piaciuto!!
      Grazie

  2. Sai raccontare molto bene, c’è una sensazione di verità che coinvolge ..
    Fino alla sorpresa finale!

    1. Grazie mille!!!
      Mi fa piacere ti sia piaciuto!!
      Grazie

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