Di solito arrivavo a casa sua il martedì verso metà mattina, era il suo giorno libero, quello nel quale lo studio medico dove lavorava era chiuso.
Mi piaceva passarci un’ora del mio tempo chiacchierando del più e del meno o dei problemi che mi sembravano in quel momento insormontabili, o delle nuove strategie che avevo pensato di adottare per vivere una vita migliore.
Ci eravamo conosciute in una tiepida giornata di fine settembre, quando ero andata allo studio a ritirare una ricetta per un’anziana vicina, a letto con l’influenza. Un limpido giorno pieno di foglie gialle soffiate da un vento dal retrogusto d’uva, che mi ricordava i tempi passati da bambina in campagna dai nonni.
Lei mi parve subito una persona accogliente e, in quel mattino pieno di rari malati, chiacchierammo a lungo.
Io avevo tempo, ero stata licenziata da poco.
Nei giorni successivi, come accade spesso, ci incontrammo ancora un paio di volte: sulla strada di casa e in una pasticceria molto graziosa e profumata di crema, burro e vaniglia vicina a dove abitavo. Senza forzature l’amicizia proseguì e ci scambiammo i numeri di telefono e le visite per il the o il caffè, il martedì a metà mattina.
Quando andavo a casa sua mi faceva accomodare nel salotto. Una stanza quadrata con una porta che dava sul giardino curato, dall’erba corta ed eguale. In primavera di uno spettacolare verde chiaro, fresco e fragile.
Non le ho mai chiesto che tipo d’erba avesse seminato.
Il salotto era arredato in modo essenziale: con due poltrone scomode, a dondolo, dalla struttura in legno e con seduta e schienale di tela marrone. Ricordavano le sdraio da mare di una volta.
Mi ci sedevo sempre in bordo e un po’ di lato, a disagio di fronte alla prospettiva della posa semi-sdraiata che avrei dovuto assumere se avessi voluto poggiare le spalle. Non mi sarebbe piaciuto rimanere così, a pancia all’aria…
Un basso tavolino di legno scuro, un grande cesto pieno di cuscini per sedersi per terra, una libreria bianca e piena di libri, un tappeto multicolore a geometrie viola, verdi e gialle usurato in più punti dai giochi bimbi e dal tempo, una pianta, alta, in vaso; non c’era altro.
Lei aveva un rapporto migliore del mio con la poltrona. Si accoccolava, come una gatta beata e sazia, s’acciambellava con le gambe sotto il sedere e il busto affondato nello schienale.
Sul tavolino era poggiato un vassoio di acciaio cromato con piccoli disegni. Intarsi in ottone lucidato. Sopra, il servizio da the. Tutto bianco, liscio e senza fronzoli.
M’incoraggiava con un gesto ampio della mano sinistra a servirmi, mentre chiacchieravamo.
Il the era caldo e buono.
Lei lo sorbiva lentamente, tra una frase e l’altra, come si stesse prendendo cura di sé, come stesse bevendo una pozione curativa.
A volte, mentre mi ascoltava, le saliva uno sbadiglio. Forse s’era alzata da poco o forse era stanca della giornata precedente o forse s’annoiava ad ascoltarmi.
Non voleva offendermi e lo nascondeva sempre.
Tirando i tratti del volto e spalancando gli occhi bruni; irrigidendo i muscoli del viso tanto da sembrare l’immagine ieratica della dea gatta.
Rimaneva sospesa, senza fiato, per un paio di secondi e poi espirava e si rilassava e mi ascoltava ancora. Non le ho mai chiesto perché le salissero quegli sbadigli.
Altre volte mi raccontava, mi spiegava, con quel suo stare da gatta sorniona, con il poco gesticolare, avvolta in una sciarpa, in uno scialle, in un fazzolettone colorato.
Sorrideva poche volte.
Non ricordo il motivo per cui non c’incontrammo più.
Forse la persi come a volte si perdono gli acquerelli, stemperandosi un colore nell’altro…
Era da molto che anche il ricordo di lei non tornava.
Sarà questa neve fitta e il vento che scuote e sfronda, che spinge e rotola, che sposta, s’allontana e s’avvicina. Sarà il freddo che nei martedì a metà mattina si allontanava poco a poco mentre sorbivo il the in compagnia di chiacchiere da donne che risolvono i problemi del mondo.
Di quel mondo di cui non fanno realmente parte e che guardano sempre a modo loro.
Sarà la solitudine dello stare da sola con te.
O la nostalgia di momenti in cui ogni cosa sembrava possibile.